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Tra le minacce di Pechino e le promesse di Washington, Taiwan punta sulle sue armi più potenti: tecnologia e democrazia. Reportage dall’isola al cuore delle tensioni tra Cina e Stati Uniti.

Alcune raccoglitrici di molluschi sono chine alla ricerca di vongole. Loro conoscono il passato di questa zona. Parlano di quand’erano bambine e si nascondevano nei rifugi per proteggersi dalle bombe sganciate dalla riva opposta dall’esercito popolare di liberazione guidato da Mao Zedong. Sono ricordi “molto vividi”, raccontano. Una dice di temere che il passato si ripeta e che la Cina attacchi Taiwan, anche se lo ritiene improbabile. “E comunque cosa possiamo farci?”, aggiunge un’altra.

Oggi Kinmen ha perso il suo aspetto militare ed è diventata un’enclave turistica frequentata dai viaggiatori che si fanno fotografare davanti alla costa cinese. È una sorta di microcosmo, ed è utile per capire la poliedrica visione di Taiwan. Lii Wen, 33 anni, è qui in vacanza e si è appena fatto fare una foto con la Cina sullo sfondo.

Negli ultimi anni le tensioni sono cresciute di pari passo all’aumento della rivalità tra Stati Uniti e Cina. Se la competizione tra le due superpotenze è destinata a segnare il corso del ventunesimo secolo, Taiwan è il punto della mappa in cui potrebbe avvenire lo scontro. La guerra in Ucraina ci ha ricordato che le tragedie sono sempre dietro l’angolo.

La biografia di Lin, la cui nonna materna era una raccoglitrice di tè analfabeta, è una sintesi della trasformazione dell’isola. Grazie ai legami di Taiwan con gli Stati Uniti, Lin è andata a studiare a Harvard, e dopo la laurea ha lavorato a Wall street. Quando la Cina ha cominciato a stringere rapporti con il resto del mondo e a crescere vertiginosamente, Lin ha guidato gli investimenti in Asia della Goldman Sachs.

Abbracciare questa identità, sostiene Lin, significa svegliarsi dal letargo degli ultimi anni, quando molti pensavano che commerciare con il nemico riducesse la possibilità di tensioni. La lezione, dice, è simile a quella che la Germania sta imparando con la Russia. Alcuni per ingenuità e altri per puro interesse personale erano convinti che fare affari con la Cina avrebbe portato alla democratizzazione del gigante asiatico.

“Xi se ne deve andare a quel paese!”, esclama un uomo durante una cena con gli amici a Taipei. Un altro si agita sulla sedia: “Io amo Xi…”. Mentre fumano e bevono birre, il primo tira fuori dal portafoglio un nuovo dollaro taiwanese: “Abbiamo una moneta, un passaporto, dei soldati. Taiwan non fa parte della Cina”. Un terzo aggiunge che, anche se Pechino si comporta in modo prepotente, è necessario rimanere amici: “Non vogliamo una guerra”.

Anche il Center for strategic and International studies, con sede a Wash­ington, ha fatto una proiezione. Secondo uno studio di gennaio, se nel 2026 dovesse scoppiare una guerra e gli Stati Uniti decidessero di difendere l’isola con l’aiuto del Giappone, l’esito probabile sarebbe una sconfitta cinese, ma con un costo enorme per tutti. Nello scenario di base, in poche settimane di combattimenti si registrerebbero più di 30mila tra morti, feriti e dispersi.

La Cina si è lanciata nella produzione di semiconduttori di ultima generazione. A marzo, nel suo primo discorso dopo la rielezione, Xi Jinping ha citato i tre fattori dell’equazione: ha invitato a perseguire “l’autosufficienza scientifica e tecnologica”; ha detto che avrebbe modernizzato le forze armate, trasformandole in “una grande muraglia d’acciaio”; e ha ribadito che la Repubblica popolare non sarà completa fino alla riunificazione con Taiwan.

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