Più o meno al cinquecentesimo articolo che elogia Hamilton, il musical di Broadway che arriverà in Europa il prossimo anno, ho pensato che forse non lo vedrò mai. Ne sono rimaste estasiate talmente tante persone da suscitarmi una profonda “insofferenza culturale”. Due anni fa è successa la stessa cosa con la quadrilogia di Elena Ferrante.
, il musical di Broadway che arriverà in Europa il prossimo anno, ho pensato che probabilmente non lo vedrò mai. E non solo perché è praticamente impossibile trovare i biglietti, ma perché ne sono rimaste estasiate talmente tante persone – anche persone di cui mi fido – che adesso considero con fastidio questa prospettiva., che ancora non ho letto.
Sarebbe facile liquidare questo tipo di atteggiamento come puro e semplice spirito di contraddizione. Dopotutto, viviamo in un’epoca di ostentazione del dissenso da tutto ciò che è convenzionale, come quella dei giornalisti che vanno a caccia di clic spiegando quali sono “Le cose giuste che dice Trump”, o delle persone che abbracciano certe mode perché altri le disdegnano.
E allora perché reagisco così? Una spiegazione potrebbe essere quella che gli psicologi chiamano “teoria della distintività ottimale”, che definisce la nostra tendenza a destreggiarci per sentirci nella giusta proporzione uguali e diversi da quelli che ci circondano. Nessuno vuole essere completamente escluso dal gruppo ed esiliato ai margini della società, ma nessuno vuole neanche essere del tutto inghiottito.
Ma io ho un altro sospetto a proposito dell’insofferenza culturale, e penso che sia una forma di difesa dalla “paura di perdersi qualcosa”. Oggi, grazie soprattutto alla tecnologia, siamo più che mai consapevoli di tutte le cose interessanti che la gente fa altrove.
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