Cinquant'anni di Fantozzi: un'eredità di risate e immedesimazione

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Cinquant'anni di Fantozzi: un'eredità di risate e immedesimazione
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A 50 anni dalla prima pellicola, il personaggio di Fantozzi continua a far sorridere generazioni di italiani. In occasione del 25° Festival Sudestival a Monopoli, Elisabetta Villaggio, figlia di Paolo Villaggio, celebra l'eredità del suo padre e il successo di un personaggio che ha saputo cogliere nel profondo le contraddizioni e le piccole vergogne dell'essere umano.

Ci fa ridere senza soluzione di continuità da mezzo secolo. E già questo non sarebbe poco.

Ma quel che ancor di più conta e sorprende della saga comica varata da Paolo Villaggio il 27 marzo di 50 anni fa in collaborazione con il regista di commedie all’italiana Luciano Salce, quel Fantozzi che si presentò prorompente sugli schermi dell’Italia complicata del 1975, devastata dalla violenza e dagli albori del terrorismo (ne potete trovare un esempio declinato su Milano con il racconto di Andrea Galli nella sezione Cronaca di 7 a pagina 28), è quanto abbia prodotto immedesimazione. Con la sua capacità di cogliere nel profondo impulsi, piccole o grandi vergogne, contraddizioni che riguardano tutti noi. Un personaggio-mondo quello creato da Paolo Villaggio già nel lontano 1968 sulle colonne del settimanale Rizzoli L’Europeo, sette anni prima di approdare al cinema con la sua maschera inimitabile. Una vita a subire, a piegarsi di fronte al superiore gerarchico che Villaggio ha riprodotto anche in un’altra sua geniale creatura impiegatizia: Giandomenico Fracchia. «Ma lui sapeva che Fantozzi era il suo personaggio più riuscito, quello l’ha sempre detto»: a parlare è Elisabetta Villaggio, la figlia di Paolo, che potremmo chiamare «la vera figlia di Fantozzi», sapendo che abituata all’ironia caustica del padre si farà una risata, ricordando la bruttissima Marianna dei film, interpretata da un uomo, Plinio Fernando (oggi 77 anni, passato dal cinema alla scultura). Elisabetta sarà domenica a Monopoli, al 25° Festival Sudestival dedicato al cinema italiano, per celebrare il cinquantenario del primo film di una saga che arriverà a dieci titoli, intitolato appunto solo Fantozzi e uscito il 27 marzo 1975. «Lui ha sempre detto che sulla sua tomba avrebbero scritto Fantozzi, non attore o autore». Anche per merito suo, di Elisabetta, la figlia che lo ha assistito negli ultimi anni culminati con la morte in una clinica romana il 3 luglio 2017, sulla lapide nel cimitero genovese di Sori non è andata così. Anzi. Elisabetta ama sottolineare quanto suo padre fosse innanzitutto uno scrittore, prima che attore o uomo di cinema. Su di lui nel 2021 ha scritto un libro, Fantozzi dietro le quinte (Baldini+Castoldi, 16 euro) e poi nel 2024 ha partecipato alla sceneggiatura di un biopic, Mostruosamente Villaggio, disponibile su Raiplay. Ha lavorato in tv come autrice, regista e consulente di programmi e ora con il fratello minore Piefrancesco tiene le fila di tutto quanto riguarda l’eredità culturale e artistica di suo padre. A Monopoli dibatterà con Nichi Vendola e altri sul personaggio creato da papà e assisterà con il pubblico alla proiezione di quel primo film da cui tutto nacque. Che di Fantozzi si parli ancora e sia amato da più generazioni mezzo secolo dopo fa un grande piacere a Elisabetta: «Vedere che i bambini di oggi non sanno chi è Paolo Villaggio ma adorano Fantozzi, vedere come è entrato nella vita degli italiani... non so se fino in fondo papà ne avesse avuto la consapevolezza in vita. Sicuramente ci sperava molto e ne sarebbe felicissimo oggi». Già, la felicità. È questa la parola che Elisabetta sceglie per riassumere ciò che le ha insegnato il padre nel loro rapporto, spesso difficile. Ma da genovese precisa e antiretorica come papà, seppure romana di adozione, non crede che sia felicità quello che Fantozzi porta al pubblico: «No, mi pare che la felicità sia una cosa un po’ più intima, che parte da dentro. Ha portato delle risate che servono ad alleggerire i momenti di tensione e sono liberatorie. E sparso ironia, che rende le cose più semplici ma non per questo più stupide». Il Paolo Villaggio nel privato era ovviamente ironico. Ma forse non era quella leggerezza che ha portato agli altri il suo tratto più marcato. «Aveva una personalità forte, tendeva a organizzare la vita di tutti, anche di noi famiglia. Io invece non mi volevo far imporre le cose, volevo decidere da sola. E allora ci scontravamo. Ora quegli scontri un po’ mi mancano». Ricorda che lui ci teneva a fare riunioni di famiglia ufficiali: «Quello succedeva quando eravamo più grandi, quando avevo già mio figlio Andreas. Faceva questi pranzi della domenica, dove eravamo obbligati ad andare all’ora tale senza sgarrare». Negli anni del successo i loro figli stavano invece spesso dai nonni, l’ingegnere edile Edoardo e Maria, prof di tedesco al liceo Maria. Per loro fu difficile accettare un figlio come Paolo: «Avevano il confronto con il fratello gemello Piero che era esattamente il contrario, si era laureato giovanissimo in ingegneria in Scienza delle Costruzioni, una delle cose più difficili al mondo, credo. Lui invece avrebbe dormito fino a mezzogiorno e qualche volta lo faceva pure, non dava esami, andava in giro con amici... Loro erano persone tradizionaliste e si dicevano “Oddio, questo è un pazzo, che facciamo? Poi quando ha avuto successo erano contenti. Perché sapevano che non era un cretino, in fondo.

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