Coronavirus, il racconto di Renato Coen guarito dal Covid-19
La sera del 10 marzo l’ospedale Sacco mi sembra una città sterminata. Ho 39 di febbre e giro a piedi per le strade vuote tra i padiglioni ospedalieri alla ricerca di un edificio che non riesco a trovare. La tosse e la febbre non aiutano la mia lucidità. Ho appuntamento per fare un tampone dopo due giorni di febbre alta e tosse. Dopo mezz’ora di ricerca la vista del dottore con cui avevo concordato di incontrarmi mi sembra la fine di un incubo. Tutto si sarebbe risolto.
Chi mi fa le analisi però sorride e scherza, mi tira su di morale, si scusa per il fastidio provocato dal tampone infilato nel naso. Ringrazio e mi chiedo cosa, alle 8 di sera possa ancora spingere al buonumore questi ragazzi così sotto pressione.“Ma come! Mi avevano detto che avrei atteso a casa l’esito”.Mi portano in uno stanzone attiguo, neanche una corsia d’ospedale.
Fa pure l’ironica, penso! E lo penso con ammirazione, anche se in quei due secondi di pausa scenica, il suo spirito non mi ha divertito moltissimo. Sento ancora la febbre e il fiato corto. Accendo il telefonino che dopo qualche istante si mette a vibrare per l’arrivo di un messaggio. È il dottore che mi ha fatto fare il tampone.Porca miseria! Il primo pensiero? Non la mia salute. Ma la notizia in sé. Le conseguenze che questo vuole dire per decine di persone. Mia moglie e mia figlia, il dispiacere, il disagio, il senso di sfida, la novità della prova da superare per la mia famiglia e più ancora i miei colleghi.
Ci siamo, mi dico, mi serve tutto, non solo la carica del cellulare, che nel frattempo sta consumando i suoi ultimi istanti di vita. Mi giro verso il mio compagno di stanza che mi dice: “Minchia quelle pasticche sono delle bombe assurde, mi hanno distrutto. Ma ora sto bene e mi stanno dimettendo”. Infatti in mezz’ora se ne va e rimango solo, a cercare di capire dove sono finito. Dove sto andando.
Il problema è che chiunque lavori in tv seppure abbia un pubblico ridotto amplifica l’evento che gli accade, suo malgrado. E così una malattia che colpisce decine di migliaia di connazionali, spesso in maniera molto più invasiva di quanto non stia accadendo a me, è diventata da qualche parte nel mondo dell’informazione un’ennesima piccola notizia da dare.
Nello stesso tempo l’infermiere mi mostra un numero di telefono appeso al muro di fronte al letto. “Se hai bisogno di qualcosa non suonare il campanello, prendi il cellulare e chiama quel numero. Rispondiamo noi qui in reparto. Così è più facile. Tu già ci dici di cosa hai bisogno e noi veniamo da te in stanza già attrezzati. In questa maniera ci vestiamo una sola volta per venire.
“Così trovare la vena per prenderti il sangue è impossibile!” Quasi si giustificano ogni tanto, non riuscendo con due strati di lattice addosso ad avere la giusta sensibilità per infilare un ago. Il caldo che soffrono mentre lavorano, lavano i malati, rifanno i letti, puliscono pazienti non autosufficienti, distribuiscono terapie, e confortano, è a volte insostenibile. Ma sorridono, ci scherzano su e quasi a volte sono tentati di darti una carezza.
Mi ritrovo però, in un gesto un po’ infantile a proteggermi con tutta la testa sotto le coperte in coincidenza con gli accessi di tosse più violenti, quando Mauro si toglie la maschera e magari si alza mettendosi seduto sul letto, ovviamente rivolto verso di me. Lo stomaco mi si chiude. Poi vengo avvolto da un senso di nausea che mi accompagna in ogni minuto. Mi sento spossato e disgustato. Perdo le forze nonostante, lo sento, il virus pare abbia trovato buoni anticorpi a combatterlo. Ho un po’ di tosse, non respiro benissimo, ma capisco anche io che la polmonite è lontana. Per ora non è un mio problema.
Mi rendo conto che i medici per primi non possono avere risposte. Quelle risposte che ormai nella nostra epoca siamo abituati abbiano sempre pronte in tasca, per positive o negative che siano. Il silenzio in stanza è interrotto dai suoi colpi di tosse e dai miei dialoghi telefonici con mia madre, mia moglie e mia figlia.
Ed in effetti il tempo inizia man mano a diventare, insieme alla febbre, il mio nemico principiale. Mi è stata recapitata una settimana enigmistica ed un libro di Isaac Singer. Un po’ pesante per il mio stato d’animo. Le riflessioni sul senso di dio, della vita e della morte, le contraddizioni esistenziali degli ebrei newyorkesi degli anni 40 che assistevano da lontano al massacro dei loro cari in Europa, non sono facilmente sostenibili in questa fase del mio ricovero.
“Certo, ci mancherebbe, mi scusi ma non mi alzavo da un po’ e non avevo notato il piatto sul comodino”. Tutte, e dico tutte, quando entrano sorridono. Tutte sembra siano portate da una consapevolezza. Entrare in quelle stanze vuol dire provare a portare il sole. “Ora è diverso però – continua – È un’emergenza senza fine, una cosa che non abbiamo mai visto. Per noi è dura, fisicamente, certo, ma anche psicologicamente. Quando torniamo a casa ci portiamo dentro i vostri occhi, i vostri sguardi. Non credere che sia facile poi tornare alla propria vita privata. In un certo senso rimaniamo sempre qui con voi”.
Chiedo ad un infermiere venuto a sistemare la stanza se avrò un altro ospite e lì capisco la dimensione nella quale sono immerso e che non posso vedere. Sono molto debole però, perché non riesco a mangiare. La cura a base di Kaletra ha fatto il suo corso. Questa insieme al virus ha cambiato il mio senso del gusto, ha chiuso il mio stomaco definitivamente, mi dà un senso di spossatezza e nausea che prostrano. I medici hanno deciso di somministrarmi un ciclo di 5 giorni, dieci dosi in tutto. Conto le ultime e psicologicamente mi sembra di faticare sempre più ad ingerirle. Quasi fossero pesanti mattoncini.
Allora apro internet, provo a distrarmi. Prima notizia letta: “A 46 anni muore di coronavirus, La storia tragica di un giovane uomo”. Esattamente mio coetaneo. Mi deprimo ulteriormente. Per lui, per quello che mi accade intorno, per il fatto che nonostante tutto capisco di non riuscire comprendere a fondo la dimensione di ciò che stiamo vivendo.
I medici una mattina sono molto chiari: “Noi non la dimettiamo finché lei ha la febbre. Quello per noi è importante. Quando le passerà la febbre andrà a casa”. Ora so chi è il mio nemico, o amico: il termometro! Nel pomeriggio entra un altro infermiere. Cerca di tirarmi su. Anche lui è gentilissimo, fa il suo lavoro con energia, senza paura, e cercando di instaurare un rapporto umano scavalcando mascherine e protezioni. Ma a un certo punto mi dice: “Tu lavori al tg di Sky, io ti vedo. Devi sapere che qui la situazione è difficilissima. Ci sono edifici pieni di malati, continuano ad arrivare ambulanze. Non so come se ne esce”.
Le ore del pomeriggio sono lunghe. Parlo al telefono con mia moglie che mi invita ad essere paziente ed ottimista. Lei e mia figlia stanno bene, tutto sta passando, io sto guarendo. Dovrò stare qualche altro giorno all’ospedale? Pazienza. Posso leggere, e pensare sempre che in fondo sto bene. Non fa una piega, ha ragione. Ma il mio animo non è molto orientato a seguire il sentiero della razionalità.
“Non ho più febbre da ieri mattina!” Annuncio trionfante. “Molto bene - mi rispondono - se oggi non le torna, domani la mandiamo a casa. Domani pomeriggio-sera, non prima”. “Ma come!” Mi cade il mondo addosso. Mi sento tradito. “I nostri protocolli prevedono un periodo di 72 ore senza febbre prima di poter dimettere un paziente. E domani sera ad essere precisi neanche sarebbero passate esattamente 72 ore, ma visto che sta bene, faremo un’eccezione.
Mi dicono di aspettare le 17, prima non c’è un’ambulanza disponibile a portarmi via. Troppo lavoro. Troppo giri tra ricoveri e dimissioni. Improvvisamente le 5 del pomeriggio mi sembrano un orizzonte temporale vicino e ragionevole. Quell’enorme muro immaginario costituito dal tempo che non passava si è sgretolato alla notizia della fine del mio ricovero. E come spesso mi capita, ripensando al dramma dei due giorni precedenti mi sento sciocco e debole”.
Il disordine regna. Ed io mi impongo, nonostante la debolezza, la nausea, lo sfasamento, di mettermi un minimo al lavoro. Prima per ripulire me stesso. Poi l’ambiente che mi circonda.
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