Il frontman dei Måneskin racconta la sua esperienza a Los Angeles, la solitudine della città e l'ispirazione ricevuta dagli incontri con artisti di fama mondiale.
Per la star della musica, 25 anni, è stato un vero e proprio salto nel buio. A Los Angeles Damiano David è arrivato da solo. «Niente amici, niente fidanzata, nessuno», racconta. E ciò che lo ha subito colpito è stata la stessa città. «Se sei europeo, a sconvolgerti è anzitutto il fatto che non ci sia nessuno per la strada», spiega. «Non ci sono bar o locali con posti a sedere all'esterno, né piazze dove la gente si ritrova. È una città in cui non si cammina, mentre a Roma non si fa altro...
anche perché ci vuole del coraggio per muoversi in auto. Los Angeles, a volte, sembra un deserto, ti fa sentire un po' solo». Eppure, la scelta di andare da solo a Los Angeles non è stata casuale. «Non avevo un background e, in pratica, potevo essere chiunque volessi. Perché nessuno mi conosceva. E questo mi ha permesso di mettere da parte tutto quello che avevo fatto fino a quel momento e di costruire il mio ambiente da zero: nuova gente, nuovi posti, nuovi musicisti, nuovi autori. E, naturalmente, questo mi è stato di grande ispirazione». Al punto da svegliarsi la mattina con il desiderio di correre in studio: sensazione che aveva perso nel corso degli anni. A ispirarlo, poi, sono stati anche gli incontri con gli altri artisti. «Ho avuto la fortuna di incontrare persone immense, a volte di lavorare con loro, e le migliori sono quelle più tranquille. Bon Jovi è la persona più tranquilla in assoluto, ma lo sono anche Labrinth, Bruce Springsteen, Mick Jagger», dice ancora. Senza nascondere di aver avuto anche incontri con altre persone che «non sono affatto tranquille. Vogliono avere questa aura che è... finta, è una maschera. Si tratta di insicurezza, di non avere piena fiducia nella propria carriera». Damiano David, invece, ha piena consapevolezza del suo talento e della sua carriera. Ma anche lui, come tutti, ha le sue paure. Come quella di «Cadere nelle trappole. Ce ne sono così tante», dice. Compresa quella «della produzione in serie e della fama»
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