La procura di Roma ha aperto un'indagine per favoreggiamento e peculato contro il governo italiano a seguito della scarcerazione e del rimpatrio in Libia del generale Almasri, accusato dalla Corte penale internazionale di torture. L'indagine mette in luce i limiti operativi e cronologici della procura, con un rigoroso rispetto del processo legale.
Nessun margine di discrezionalità, una denuncia è stata presentata (per ammissione della stessa premier Giorgia Meloni). L’intervento della procura di Roma a valle della scarcerazione del generale libico Almasri , accusato dalla Corte penale internazionale di torture, era obbligato, come pure la contestazione dei reati oggetto della denuncia stessa, favoreggiamento e peculato.
Il primo, punito nel massimo con 4 anni di reclusione, è stato tra l’altro modificato nel 2012 per inserire espressamente la Corte penale internazionale tra i soggetti le cui indagini sono ostacolate dalla condotta della persona indagata. Il secondo, peculato, colpisce il pubblico ufficiale che ha, per ragioni legate al suo ufficio, il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, e se ne appropria illegittimamente: la sanzione nei casi più gravi arriva a 10 anni e 6 mesi; nei casi più lievi (uso momentaneo della cosa e sua restituzione), la detenzione arriva nel massimo a tre anni. A riprova poi dei ristretti margini sia operativi sia cronologici a disposizione della procura c’è poi anche l’articolo 6 comma 2 della legge n. 1 del 1989 sui reati ministeriali (i quattro componenti del Governo, il premier Meloni, il ministro della Giustizia Carlo Nordio, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano sono indagati in concorso tra loro). Nella norma si specifica che il procuratore della Repubblica, «omessa ogni indagine, entro il termine di 15 giorni» trasmette gli atti al tribunale dei ministri competente, «dandone immediata comunicazione ai soggetti interessati perché questi possano presentare memorie al collegio o chiedere di essere ascoltati». E se il peculato attiene all’utilizzo dell’aereo di Stato per il rimpatrio in Libia di Almasri, centrale è la vicenda relativa al presunto favoreggiamento e l’ostacolo all’azione della Corte penale internazionale. La lettura dell’ordinanza della Corte d’appello di Roma che ha rimesso in libertà l’ufficiale libico poi immediatamente ricondotto con volo di Stato in Libia, evidenzia una serie di passaggi. Innanzitutto va tenuto conto del ruolo centrale attribuito dai giudici al ministro della Giustizia. Per il collegio della Corte d’appello, infatti, Nordio doveva essere interlocutore obbligato nella vicenda: la legge 237/2012 (con la quale è stato recepito nel nostro ordinamento lo Statuto istitutivo della Corte penale internazionale) specifica infatti che «i rapporti tra lo Stato italiano e la Corte penale internazionale sono curati in via esclusiva dal ministro della Giustizia, al quale compete di ricevere le richieste provenienti dalla Corte e di darvi seguito». E un intervento del ministro era stato sollecitato dalla procura generale nella giornata del 20 gennaio, come risulta dal testo dell’ordinanza; di fronte alla mancata risposta del ministro che il giorno successivo fece emanare invece un comunicato con il quale metteva nero su bianco di stare ancora effettuando le valutazioni del caso, la Corte d’appello, sempre il 21 gennaio dispose la messa in libertà dell’indagato. Caso Almasri, Un caso con pochi, forse nessun precedente in Europa, si fa notare, di mancata esecuzione di un mandato della Corte penale internazionale che adesso avrà un inevitabile seguito davanti al tribunale dei ministri che ha 90 giorni di tempo per compiere tutti gli accertamenti per poi procedere a insindacabile archiviazione oppure inviare gli atti al Parlamento per la richiesta di autorizzazione a procedere
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