Gimbo Tamberi: Oltre il Salto, Un'Anima d'Artista

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Gimbo Tamberi: Oltre il Salto, Un'Anima d'Artista
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L'articolo esplora la vita e la carriera di Gianmarco Tamberi, l'atleta italiano che ha conquistato il mondo con i suoi salti straordinari. Dai momenti di trionfo agli infortuni, dalla sua personalità eccentrica al profondo legame con la musica, la scuola e la famiglia, la narrazione si focalizza sulla complessità di un talento unico che trascende lo sport.

Guardate più lontano, guardate più in alto: Gimbo Tamberi non è mai solo un gesto. Quel salto che gli ha permesso di vincere tutto: Europei , Mondiali , Olimpiadi . Vederlo saltare è sempre come andare a teatro: vuoi il colpo di scena e lui ti accontenta. Come agli ultimi Europei , un’estate fa nel caldo di Roma. Aveva saltato, incantato la folla, vinto l’oro. Aveva finto un infortunio e poi - sorpresa - aveva fuori delle molle dalle scarpe.

“Ho subìto infortuni gravissimi, se posso permettermi di scherzarci è perché li ho superati. È un messaggio per chi sta male”. Due cose non sono mai mancate nelle performance di Tamberi: l’eccesso (bello e brutto) e il rumore. Il primo è facile riscontrarlo in ogni sua gara. A Parigi, ultime e sciagurate Olimpiadi, ci era arrivato dopo un calvario tra calcoli renali, post disperati, corse in ambulanza, attese e speranze. “Quando i dottori mi hanno detto ‘Gianmarco, se tu vuoi andare puoi andare, perché non rischi niente’ io mi sono alzato in piedi e ho chiesto di togliermi immediatamente le flebo perché volevo andare a gareggiare. Non me ne fregava niente, dovevo provarci”. In pista aveva consumato il suo atto di dolore, ma le gambe non andavano, aveva finito le energie. Sognava di vincere le Olimpiadi per la seconda volta, invece era finito a piangere disperato sotto gli occhi del mondo intero. Ma l’eccesso non è nulla senza il rumore che questo atleta straordinario provoca ogni volta che salta. Con quel suo gesto sublime, tecnicamente divino. Accadde persino ai Giochi di Tokyo, nel 2021, in uno stadio senza gente (c’era il covid, do you remember?). In un silenzio surreale Tamberi fece esplodere la festa. No Gimbo no party. Lui e il suo amico Barshim avevano saltato le stesse misure senza errori (2,24 metri, 2,27, 2,33 e 2,37) e poi avevano commesso tre errori ciascuno sulla misura di 2,39 metri. A quel punto erano già sicuri di aver vinto almeno la medaglia d’argento e avrebbero potuto decidere di contendersi l’oro con uno spareggio, ma scelsero di non proseguire e di farsi dare due ori. Ecco, il colpo di scena. “È stato Barshim a chiedere al giudice: possiamo vincere tutti e due? Poi mi ha guardato, come a dire: ci stai? Non c’è stato nemmeno bisogno della mia risposta. E chi ero io per rifiutare un oro all’Italia? Avessi detto no e l’avessi perso mi avrebbero sommerso di critiche: presuntuoso, superbo, egoista. È stata un’occasione unica di amicizia”. E il silenzio si fece bolgia. Quella volta aveva portato in pedana il gesso come sacrificio al dolore che aveva dovuto passare cinque anni prima, nel 2016, quando dovette dire no ai Giochi di Rio per un infortunio che sembrava la fine di tutto. Invece no, con Tamberi non è mai finita. Sul gesso Gimbo aveva scritto la direzione, “Road to Tokyo”. Da guascone e atleta formidabile a simbolo di riscatto. Pensate a uno che non si è mai arreso, vi verrà in mente (anche) lui: “Sicuramente la mia medaglia è stata una di quelle che ha colpito la fantasia dei ragazzi: se questo porterà un’impennata di nuovi saltatori lo scopriremo fra qualche anno”. C’era sempre stata una parte di dramma, di disperazione, anche di teatro nei salti di Tamberi. Ha sempre inseguito un attimo irripetibile dentro un’estasi collettiva. Per questo ci piace. E poi Gimbo ha sempre avuto bisogno degli altri per darsi ancora più carica: la sua famiglia, i suoi amici, poi tutto lo stadio, fino al mondo intero. Sarà perché in pedana si è sempre sentito solo, il salto in alto proprio non gli è mai piaciuto. E con il padre, ex saltatore, il tecnico che lo ha accompagnato fino all’apice di Tokyo, il rapporto è sempre stato fragile. Fino a rompersi del tutto, dopo aver raggiunto il massimo risultato, l’immortalità. “Era molto severo con me”, ha sempre detto Gimbo, scegliendo parole durissime per definire la storia col padre. “Il fallimento più grande della mia vita. Mi sono sentito tradito dalla figura genitoriale. Un padre deve aiutarti a prendere la strada giusta ma non obbligarti a scegliere quella strada”. A Belve, già uomo, campione olimpico e leggenda, ha confessato che “non amavo il salto in alto, non amo quello che faccio e tuttora mi piace molto di più il basket, ho giocato fino ai 17 anni. Se avessi giocato ancora sarei stato meno orgoglioso, ma più felice”. E così la felicità ha preferito cercarla da un’altra parte. Nell'amore di Chiara, al suo fianco da quando erano ragazzini, che gli ha dato una seconda famiglia, affettuosa e comprensiva, non competitiva. Nella musica. Da ragazzo picchiava forte su una batteria, e il suo gruppo, i “The Dark Melody”, suonavano l’anticonformismo: Led Zeppelin, Pink Floyd, De André. Non gli è mai piaciuta la scuola (“Odiavo andarci. Non perché non fossi bravo o non mi piacesse studiare, ma perché dovevo svegliarmi alle sei e mezza”), la sua vocazione è sempre stata la pallacanestro. Ha cominciato a quattro anni, playmaker, “e quando sono diventato uno e novanta avevo ancora quella visione di gioco”, una capacità di lettura che lo ha aiutato a diventare uno dei più grandi atleti di tutti i tempi.

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