Un racconto sulla vita e l'arte di Grazia Varisco, artista italiana del Gruppo T, che ha rivoluzionato l'arte con la sua sperimentazione nel campo dell'arte cinetica e programmata.
Il cacciavite anziché la matita. Il negozio del ferramenta con i nuovissimi fogli di rodoide meglio di quello delle belle arti in Brera. I tanti sabato mattina passati da un fabbro, amico degli artisti, a rovistare tra gli scarti della lavorazione. Così negli anni 60, l’arte cinetica e programmata, quella del Gruppo T (lettera che sta per Tempo) con Grazia Varisco legittima parte componente che s’impose ai quattro colleghi maschi, surclassò tele, pennelli, colori in tubetto.
Dando all’arte una svolta contemporanea, dove anche la manualità, non però quella propria del disegnare, ha avuto un ruolo primario. Del resto Grazia e i suoi compagni del Gruppo T (Giovanni Anceschi, Davide Boriani, Gianni Colombo, Gabriele De Vecchi) potevano contare, per le loro sperimentazioni, sugli spazi delle officine fondate nel 1903 da Enrico Varisco, padre di Grazia, costruttore delle prime caldaie a vapore chiodate. «Il pensiero che cerca una forma adeguata, ecco cosa mi piace!», dice l’artista milanese. «È difficile che io disegni, anche se ovviamente so farlo. Son lì che penso e piego sempre qualcosa, uso le mani per fare qualcosa di oggettuale. Se fai un nodo con una fettuccia ti accorgi che se lo schiacci in modo attento viene fuori il pentagono regolare. Con le mani fabbrico materialmente le mie opere», esposte proprio adesso alla Tate Modern di Londra, nella mostra Electric Dreams: Art and Technology Before the Internet (fino all’ 1/06/25). Così Grazia Varisco fin da subito si cimenta con lastre di metallo, neon e motorini elettrici per i suoi Schemi luminosi variabili, poi anche con il vetro industriale lenticolare nel quale poi racchiude anche gocce di simil mercurio, i suoi famosi quadri Mercuriali del 1965/71. Ma nelle foto d’epoca, come quella nella pagina accanto in Accademia con il maestro Achille Funi sullo sfondo, lei appare però come una signorina bon ton. Bel cappotto, belle scarpe, bella gonna, bella borsetta. «Borsetta? Un puro caso. Non le am
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