Il Grande Vuoto: Un Dramma silenzioso che esplora la memoria e il vuoto

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Il Grande Vuoto: Un Dramma silenzioso che esplora la memoria e il vuoto
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Uno spettacolo di intensa drammaticità che esplora il tema della perdita di memoria attraverso il silenzio e la potenza delle azioni. La pièce segue la storia di una donna anziana che lotta contro la demenza, mentre i suoi figli cercano di fare i conti con il suo declino.

La traccia più evidente di come la forma artistica faccia prender corpo al suo tema nello spettacolo “Il grande vuoto”, scritto e diretto da Fabiana Iacozzilli, è proprio come nel testo – e poi nella resa scenica – è usato in modo sapiente, con abilità semiotica, il silenzio. Là dove non c’è parola detta, pian piano – anche per la vicenda che si dipana, di degenerazione cognitiva e perdita di memoria – c’è lo stesso una forte significanza.

Come una partitura modulata “in levare”, questo dramma, scritto insieme alla dramaturg Linda Dalisi (che ha lavorato con Vico Quarto Mazzini anche al pluripremiato agli Ubu “La ferocia”) ruota attorno alla perdita di memoria progressiva di una donna ormai anziana, e da poco vedova, ex attrice e di come questo vuoto della memoria diventi un buco nero che attira per amore e per dolore le vite dei due figli che la vanno a trovare. Uno spettacolo del 2023 che meritava più riconoscimenti e che continua, seppure con pause, la sua applaudita tournée (la distorta macchina della distribuzione teatrale italiana fa purtroppo apparire gli spettacoli come terre emerse, restando per pochi giorni su un palco di una città, prima di tornare sommersi, magari mesi, in attesa delle prossime date). Passata da poco di nuovo a Roma al Teatro Vascello (che lo produce insieme a La Corte Ospitale, Romaeuropa Festival) “Il grande vuoto” chiude una trilogia “del vento” dopo “La classe” e “una cosa enorme” ed è stata scritta da Iacozzilli e Dalisi anche a partire da improvvisazioni e testimonianze raccolte in RSA. Il tema della malattia degenerativa (l’Alzheimer, pur mai nominato) nasce come una deriva anche di un lutto, per la perdita del marito. Troviamo la coppia, Ermanno e Giusi (Ermanno De Biagi e la strepitosa Giusi Merli) in apertura su una scena ( di Paola Villani con luci di Raffaella Vitiello ) che ha un fondale con qualcosa simile a grandi armadi e lamelle dorate e al centro una macchina – ma più piccola di una macchina normale – attorno alla quale i due coniugi si ritrovano tra baruffe litigiose e affettuosità di chi sta assieme da sempre, tra distrazioni di lei e affaticamenti di lui – che di fatto viene portato via, in un quella uscita di scena che scopriremo essere stata una morte. La madre rimasta sola, si ritrova in pranzi con i figli Francesca (Francesca Farcomeni) e Piero (Piero Lanzellotti) che pure la amano ma, nella seconda e volutamente lenta scena, sono spaesati dal crollo mentale della madre, con conversazioni di affilata banalità, fatte per riempire un silenzio in cui annaspano come naufraghi. A fronte di questa perdita di passato e di futuro della madre sta anche il vuoto di futuro dei figli stessi con le loro esistenze precarie (lei lavora per cinema o teatro, ma si intuisce che non ha raggiunto grandi risultati, lui quasi tenero e infantile nel suo orgoglio di chi parteciperà “al campionato mondiale di bigliardino”). È forse un dettaglio minore, rispetto al tema della malattia, ma è a mio avviso un punto chiave, politico, esistenziale, lo squarcio da cui entra l’urlo altrettanto muto di una generazione schiacciata tra mancata memoria e futuro opaco. Un elemento che spezza il cerchio del patetico, altrimenti chiuso nel solo dramma della malattia, pur nella sua importanza. Iacozzilli mette in scena questo groviglio di rabbia, dolore, incredulità, quasi negazione con uno spettro recitativo molto intenso che dà Francesca Farcomeni, momenti che trafiggono il tragico mutismo della madre e il suo vano lottare contro il niente incomprensibile. Alla madre, insieme a ripetitive fissazioni e lacune, restano brandelli di memoria dal teatro, tra cui il suo “cavallo di battaglia” Re Lear, e saranno proprio questi puntelli a tenere le rovine di una vecchiaia altrimenti sospesa dentro un’ angoscia cupa, strangolante nella terza sequenza in cui il vuoto si manifesta anche col vuoto della scena: la madre si vede spersa nel labirinto della propria opacità dentro la casa notturna che vediamo fuori scena (a simbolizzare che c’è una realtà che resta oltre) solo dalle immagini sgranate su un grande schermo che sovrastala scena (video di Lorenzo Letizia ). Pur essendo non una novità, gli schermi sono usati da Iacozzilli in modo equilibrato e dolente, anche qui dando corpo al silenzio, rotto dai banali rumori di porte sbattute e rubinetti aperti e Giusi ripresa dalle telecamere spia “come quelle dei cani” dice amara la figlia, che fuori campo e in voce riflette su questo mistero della mente imperscrutabile. Sono frasi in qualche modo pleonastiche semmai rischiano di amplificare troppo una compassione che comunque c’è, in chi assiste, fino alle lacrime. La forza della pièce sta soprattutto nella lucida accettazione del vuoto: lo vediamo riempito di tutti gli oggetti che nella notte insonne la madre tira fuori dagli armadi e che avvia alla quarta e ultima scena: decine di cravatte, fotografie, copioni, giocattoli, vestiti

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