Il Mutamento di Rotta: Dalle Politiche DEI al Contropiù

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Il Mutamento di Rotta: Dalle Politiche DEI al Contropiù
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Un'analisi dell'inversione di tendenza rispetto alle politiche di diversità, equità e inclusione, evidenziando le ragioni profonde di questa reazione e le sfide che si presentano per il futuro.

Le parole di Pete Hegseth, appena nominato Segretario della Difesa degli Stati Uniti, «Le nostre differenze non sono la nostra forza.

La nostra unità e il nostro scopo condiviso sono la nostra forza» in risposta a una domanda sulle politiche di diversità e inclusione nell'esercito americano, hanno risvegliato un interrogativo sul cambiamento di rotta in atto rispetto ad una pratica e una retorica - quella dei valori della tolleranza e dell'inclusività - che per alcuni anni sono state molto in voga sia nella politica che nel management. Hegseth, nonostante un passato più che discutibile, è stato nominato dal presidente Donald Trump, il quale nel suo discorso d'insediamento ha affermato che «esistono solo due generi: l'uomo e la donna», e recentemente ha fatto intendere che dietro il disastro aereo di Washington ci siano proprio le politiche di inclusione. Pochi giorni fa Mark Zuckerberg ha difeso la scelta di Meta, trapelata un paio di settimane fa, di ridurre o sopprimere diverse iniziative «DEI» - acronimo di «diversity, equity, inclusion». Ospite di Joe Rogan, ha anche affermato che «gran parte del mondo aziendale è culturalmente castrato» e che «potrebbe beneficiare dell'energia maschile». Si tratta di casi forse eclatanti, ma comunque che segnano un deciso cambio di rotta rispetto a una pratica e una retorica – quella dei valori della tolleranza e dell’inclusività – che per una buona manciata di anni sono stati molto in voga sia nella politica quanto nel management. Ora chi su quei temi aveva molto insistito e investito si trova ad avere a che fare con un repentino cambio di contesto. La tentazione di etichettare queste nuove tendenze come semplici afflati reazionari o espressione di idee retrograde e bigotte è forte. Ma sarebbe un grave errore. Se non si cerca di capire le ragioni profonde di questa reazione, se non si identificano gli errori che sono stati fatti pur se in buona fede e per una buona causa, ci si condannerà a doverli ripetere in futuro, allontanando sempre di più il traguardo per cui ci si batte. Direi che ci sono tre livelli. Un primo, più evidente, ha a che fare con l’ipocrisia – quanto meno percepita. Il successo delle tematiche DEI ha fatto in modo che moltissime persone, istituzioni, aziende saltassero sul loro carro senza davvero credere nella loro causa, servendone come strumenti di marketing. C’è stato un periodo in cui i colori arcobaleno venivano inseriti in quasi ogni tipo di prodotto, evento, servizio, ma raramente poi alle dichiarazioni di intenti seguivano atti concreti. Tutto questo alla lunga è sembrato a molti non solo fastidioso, ma per alcuni anche minaccioso. Perché se è vero che oggi siamo in un mondo in cui l’attenzione è la nuova valuta, allora l’attenzione crescente data alle minoranze – per quanto pelosa – ha fatto sentire diverse maggioranze trascurate. Anche le maggioranze hanno infatti bisogno di sentirsi ascoltate e coinvolte, poiché oggi essere più numerosi non vuol necessariamente dire avere maggior potere – né ovviamente non avere problemi che richiedono ascolto. Non ha poi aiutato un certo afflato inquisitorio di alcuni volenterosi alfieri del tema, sempre pronti a contare il numero di cravatte ai convegni o a giudicare le forme delle modelle nelle pubblicità. Questo non solo ha aumentato il senso di ipocrisia – “Perché proprio loro, che dicono che non bisogna giudicare le persone dall’apparenza, giudicano l’apparenza?” – ma a volte ha anche condotto alcuni a indicare più o meno esplicitamente come complici e responsabili di discriminazioni passate e future tutti gli appartenenti a un gruppo sociale privilegiato. Ma il privilegio non può mai essere una colpa: semmai una responsabilità. Un secondo livello, un po’ più profondo, è quello legato al perseguimento di obiettivi di inclusione numerici, quantitativi. Le quote rosa, per esempio, hanno notoriamente diffuso un certo senso di tradimento della meritocrazia – che è fondamentalmente un’illusione, ma pur sempre un’illusione necessaria. Questo rischio è stato in realtà sempre ben presente, ma si è ritenuto che fosse comunque necessario “forzare la mano” per accelerare il risanamento di una situazione ritenuta discriminatoria e ingiusta. In effetti l’urgenza poteva anche essere giustificata, ma curare una discriminazione con una discriminazione – per quanto formalmente paritaria – nel lungo periodo non può essere una buona idea. Trascurare o rinunciare a percorrere la via più lunga e faticosa, quella della promozione culturale, dell’ascolto e del confronto, per poter arrivare subito a risultati tangibili ha creato fratture sociali e relazionali ancora più profonde. Senza questa azione di tessitura più paziente molti si sono sentiti non solo trascurati, ma anche marginalizzati. “Non si può più dire niente” e “È la dittatura del politicamente corretto” sono stati i motti rozzi ma solo in parte contraddittori con cui ha trovato sfogo l’insofferenza di tanti che hanno sentito il loro ruolo ridimensionato e che ritenevano di poter essere puniti ancora più violentemente se avessero espresso il loro malcontento

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