Il pontefice: fissate gli altri e non temete l’amore
Mentre andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre».
Mentre i due parlano, Gesù non sta soltanto pensando a quello che vuole dire al suo interlocutore, ma sta pensando a lui, a chi ha davanti, anzi, prima ancora di pensare, lo guarda, lo fissa, con amore. Senza quello sguardo d’amore la comunicazione umana, il dialogo tra le persone può facilmente diventare soltanto un duello dialettico, quello sguardo rivela invece che c’è in ballo un’altra questione, vertiginosa, che non ha al centro il merito della discussione ma molto di più, il senso stesso dell’esistenza, mia e del mio interlocutore.
Pensando a questa condizione ho espresso, tornando dal viaggio in Asia lo scorso novembre, il mio auspicio che l’Occidente recuperasse dall’Oriente il senso della «poesia», intendendo con questa bella parola proprio il senso della contemplazione, del fermarsi e donarsi un momento di apertura verso se stessi e gli altri nel segno della gratuità, del puro disinteresse.
La mia identità è un punto di partenza, ma senza l’alterità cade a vuoto, si appassisce e rischia di morire. Senza il riconoscimento dell’alterità muore non solo l’altro ma anche io stesso. L’aspetto importante però è che questo riconoscimento per essere «pieno», deve aprirsi al riconoscimento della libertà dell’altro. Questo punto è cruciale. Qui ci muoviamo ancora una volta nel cuore del cristianesimo.
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