Jannik Sinner ha superato un'ardua prova contro Holger Rune, ma la partita ha evidenziato una fragile salute fisica e mentale. Il tennista italiano è apparso provato da un malessere pre-partita, e la sua performance ha oscillato tra momenti di grande classe e momenti di incertezza. Sinner, consapevole della sua condizione, ha lottato con coraggio per raggiungere la vittoria, ma il fantasma delle incertezze si fa sempre più presente.
DALLA NOSTRA INVIATAMELBOURNE - Bianco come un cencio, è seduto con la testa nell’asciugamano e trema. Tremano le mani, la destra con cui si asciuga la guancia dal sudore e la sinistra con le dita allargate, per dare un baricentro allo sconquasso emotivo. Trema la borraccia quando se la porta alla bocca.
Tremano i tifosi di Jannik Sinner, mai così in difficoltà come nell’ottavo dell’Australian Open con Holger Rune, il principe di Danimarca che viaggia con i fantasmi in tasca come Amleto, e ne sparpaglia un po’ per il campo. Un set pari (6-3, 3-6), 2-1 nel secondo. Jannik ha appena annullato tre palle break raschiando le ultime energie che ha in corpo. La prima con un martellamento esanime ma efficace da fondocampo, la seconda correndo a perdifiato dietro un lob e ribaltando l’inerzia dello scambio con uno schiaffo al volo, il suo marchio di fabbrica; la terza con un ace a 195 km all’ora, un gesto — davanti a quel trivio mortifero — di pura classe. È morto, è risorto. È ancora vivo: mercoledì affronterà De Minaur nei quarti. La mente, sotto pressione, può diventare un labirinto dentro cui perdersi. Sinner ci è entrato, è piombato nel buio per lunghi tratti e lì, mentre giocava a moscacieca con Rune, si è aggrappato a una luce interiore per uscirne. «Ho pensato a tutti gli allenamenti, a quanto mi sono dato da fare, al lavoro nella off season a Dubai: mi sono preparato anche per giornate come questa. Il tennis c’era ma il fisico non seguiva. Ma è proprio nella difficoltà che devi fare la differenza. E alla fine mi sono detto: bravo, l’hai gestita bene». Ha portato a casa in quattro set, annullando 4 palle break su 8 e aggrappandosi come un naufrago al servizio (83% di punti sulla prima, 14 ace e 6 doppi falli, uno che gli è costato il secondo set: cose non da Sinner) la partita di tennis più difficile della sua esistenza. Niente a che vedere con il malore a Wimbledon dell’anno scorso, ci spiega. «Questa volta ho dormito, anzi se non mettevo la sveglia tiravo dritto». Però si è svegliato strano, pallido, scarico. Quando l’hanno visto arrivare al circolo, tardissimo rispetto all’orario del match («Ho dovuto cambiare la routine, che di solito mi dà fiducia, e non ho fatto riscaldamento») si sono spaventati: era verde in faccia («Dopo il medical time out un po’ di colore è tornato»). Ha parlato con il medico del torneo. Vuoi giocare, gli ha chiesto quello. Lo sventurato rispose. I fatti certi: in campo gli girava la testa (ipse dixit), a un certo punto ha fatto cenno al suo box di voler vomitare. È un infortunio? «No» risponde netto. È un problema di salute? «Qualcosina c’è, sto combattendo». Cosa sia, quel qualcosina, se un disagio della mente che si riverbera sul corpo o viceversa, lo sa solo Jannik. Fioccano diagnosi, numerose come i nomi dei coach che secondo la vulgata dovrebbero sostituire Cahill a fine stagione, e lui facendo il vago («Non voglio parlarne, non voglio entrare nei dettagli») le alimenta. Con Rune è stato salvato da se stesso, dall’uscita dal campo (lì il medico gli ha dato una pastiglia), dalla rottura della rete, che ha consigliato il giudice di mandare i giocatori negli spogliatoi perché aspettassero all’ombra, e dallo svarione di Wimbledon, l’altra situazione in cui si era sospettato un piccolo attacco d’ansia. «Wimbledon mi ha aiutato tanto: mi ha permesso di gestire le cose meglio di come avessi fatto a Londra» ha ammesso. Il caldo (30-32 gradi) c’era, ma in Australia si è giocato in condizioni ben più estreme e l’umidità di New York può essere più terribile. La scarsa voglia di approfondire l’argomento fa pensare a una tematica nota e ormai ricorrente, di cui il ragazzo è consapevole e su cui si sta applicando. Nessuna congettura. Però in giornate come ieri Jannik Sinner si trova ad affrontare due fantasmi: «L’avversario e me stesso». Uno, è di troppo
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