Un'analisi dell'incredibile successo di Jannik Sinner, con un focus sulla sua capacità di competere al più alto livello e sulla possibilità di completare un Grande Slam.
Non siamo noi che amiamo i paragoni impossibili, è lui che ci costringe a farli. Perché sotto ogni sasso della sua ancor giovane strada sono disseminati indizi che vanno in quella direzione. Esempio: dall’inizio dell’era Open (1968), prima di Jannik Sinner ieri, quali sono stati i giocatori capaci di vincere una finale dello Slam in tre set senza concedere manco una palla break? Solo due.
Roger Federer nel 2003 a Wimbledon, contro Mark Philippoussis, e Rafael Nadal contro Kevin Anderson, allo Us Open del 2017. Avversari rispettabili, per carità. Ma a quel tempo erano rispettivamente la ventottesima e la diciassettesima testa di serie. Non la seconda, come Alexander Zverev. E l’ultimo capace di portare a casa due Australian Open di fila? Vabbè, questa è più facile. Esperiti i riti scaramantici di turno, non è quindi ozioso porsi la stessa domanda che ha sempre accompagnato la Santissima Trinità del tennis. Ma questo giovin signore italiano, potrebbe riuscire nell’impresa delle imprese sempre sfuggita ai Tre grandi? Insomma, Jannik ha qualche possibilità di completare un Grande Slam, impresa della quale è titolare solo Rod Laver, due volte, e Donald Budge in epoche ormai remote? Questo primo Slam dell’anno non è stato banale nel suo significato. Tutti i più forti esponenti della generazione compresa tra il 1996 e il 1998, sono stati eliminati da giocatori nati nel nuovo secolo. Sono già vecchi, superati, e non deve essere una bella sensazione. L’ultimo è stato Zverev. Quando apparve sulla scena, tutti gli esperti dicevano che non sarebbe stato questione di quando, ma di quanti Slam avrebbe vinto in vita sua. Invece, poverino. Lui, Stefanos Tsitsipas, Daniil Medvedev, per citare i migliori, si sono rivelati sempre incapaci di emendare una falla nel loro gioco, che nei momenti importanti si rivela poi una voragine. Per Zverev e Medvedev è il dritto, per il greco è il rovescio. Per tutti, è la testa. Jannik e quelli che verranno insieme a lui sono stati costruiti tenendo presente i loro fallimenti. Si sono ispirati all’immensa concretezza e duttilità di Roger, Rafa e Novak Djokovic, il loro tratto comune. A rigor di logica, Jannik è titolare di un servizio e di un rovescio meno efficienti di quelli del tedesco. Ma non ha crepe, lui, nella racchetta e nella testa. Se vuoi batterlo devi fare più vincenti e meno errori, giocando al suo ritmo unico, e tanti auguri. Considerando l’involuzione tecnico-tattica di Carlos Alcaraz, e l’età ancora giovane delle minacce future come — su tutti — il brasiliano Joao Fonseca (classe 2006), al momento esiste una finestra temporale che non rende del tutto peregrina una risposta affermativa al quesito iniziale. Al tempo stesso, non è un caso che l’impresa non sia riuscita neppure a quei tre mostri. Sul cemento, Jannik è così forte che nessuno è ancora riuscito a portarlo sulla lunga distanza. Il suo record nei match che arrivano al quinto set è di 6-9, il secondo peggiore tra i primi quindici del mondo. Non ha mai vinto in carriera un match andato oltre le quattro ore di durata. Per ragioni quasi opposte tra loro, la terra rossa di Parigi e l’erba di Londra impongono spesso il dazio della maratona. Vedremo. Ma anche la sola ipotesi che rende vagamente plausibile la stesura di questo articolo, dovrebbe dare la misura dell’enormità di quel che sta facendo Sinner. Non diamolo per scontato, mai
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