L'articolo analizza le nuove dinamiche di potere emerse nell'epoca dominata dalla presidenza Trump, evidenziando come la frammentazione economica e la crescente influenza di giganti tecnologici stiano ridefinendo il ruolo degli Stati e delle istituzioni finanziarie tradizionali.
Nell'epoca dell'oro, annunciata all'America da Trump e minacciata contro gli altri, alleati compresi, cambiano i rapporti fra i diversi poteri. Tra Stati e tra grandi gruppi economici e finanziari. E tra questi ultimi e gli stessi governi. Non è detto che ciò accada in una nuova dimensione conflittuale.
Il paradosso principale è che una presidenza imperiale, come quella del tycoon, tra dazi e ritorsioni, può dare persino avvio a una stagione di rapporti muscolari tra superpotenze non necessariamente destinate ad essere conflittuali. Una sorta di distensione contrattuale. L'ulteriore paradosso è che spesso i compromessi sono più facili o relativamente meno difficili da raggiungere con i nemici, come la Cina e la Russia, che con gli amici, cioè gli europei. Questo spartiacque americano certifica, come hanno affermato Marta Dassù e Vittorio Emanuele Parsi, ospiti dell'incontro New Year's forum svoltosi qualche giorno fa a Roma, la fine del vecchio ordine liberale, di mercato e multilaterale che abbiamo conosciuto dal secondo Dopoguerra in poi. La conservazione di quel mondo, anche sul piano dell'ombrello militare garantito ai Paesi europei, ha per l'America più costi che vantaggi. Il segnale decisivo, traumatico, è soprattutto questo. Ma sbaglieremmo a considerare Trump un isolazionista, come è risultato nell'intervento al Forum di Davos. Che cosa ci si può aspettare? Un'analisi particolarmente interessante è stata proposta da Christopher Clayton, Matteo Maggiori e Jesse Shreger (The political Economy of Geoconomic power) e ripresa anche da Olivier Blanchard. In sintesi: nell'epoca della frammentazione, la Cina ha il suo punto di forza nella manifattura ma gli Stati Uniti conservano un'egemonia, sottovalutata, nei servizi finanziari per i quali l'Europa è tutt'altro che tagliata fuori. La centralità del dollaro negli scambi internazionali potrebbe anche non essere messa in discussione ma non va sottovalutata la capacità dei Paesi Brics, e della stessa Cina, di poter creare un'architettura finanziaria alternativa al sistema occidentale di scambi e pagamenti. Le ritorsioni rischiano di essere inefficaci o addirittura controproducenti. Viviamo un'epoca di giganti economici che sembrano dettare le regole anche alle stesse democrazie rappresentative, ma anche in questo caso bisogna capire fino a che punto le esigenze di sicurezza, alla base della frammentazione in atto, non finiscano per essere limiti intollerabili per business per loro natura globali. «Noi stiamo del tutto sottovalutando — è l'opinione di Matteo Maggiori, economista, docente a Stanford e cofondatore di Globalcapitalallocation.com — il costo economico dell'ossessione per la sicurezza che, a partire dagli Stati Uniti, molti Paesi hanno messo al primo posto della loro agenda. La frammentazione avrà effetti su prezzi e quote di mercato. La più grande arma di pressione degli Stati Uniti non sono però i dazi, sono i servizi finanziari di base e i sistemi di pagamento. Attraverso i quali, per esempio, si sono attuate efficaci sanzioni contro Iran e Russia, esercitato pressioni su Hsbc per contrastare la cinese Huawei. Mentre in alcune produzioni e innovazioni, il mondo occidentale sembra in drammatico ritardo, nell'architettura finanziaria il vantaggio è attualmente ineguagliabile». Un vantaggio però tutto americano, professore? «Assolutamente no. Si dimentica, per esempio, che il circuito internazionale Swift è di fatto una cooperativa belga, che l’architettura finanziaria internazionale si regge in parte sui centri in Lussemburgo e Olanda. Oltre ovviamente all’indiscutibile peso della piazza finanziaria di Londra. Ora l’Unione europea, anche dopo la Brexit, ha eccellenti argomenti per contrastare le mosse americane nel caso inizi una disfida commerciale. Quello che gli Stati Uniti devono temere di più poi non è la perdita di centralità del dollaro, ma la possibilità che si costituisca una architettura finanziaria alternativa a quella occidentale, basata in parte sul dollaro off shore, magari attraverso i Brics e specialmente in Cina. Non dimentichiamo che Trump ha minacciato dazi del 100 per cento contro i Paesi aderenti se solo avessero provato a farlo. La Banca dei regolamenti internazionali ha sospeso un progetto per una nuova piattaforma di pagamenti internazionale perché temeva che Pechino finisse per controllarla». Nell’analisi di Maggiori si comprende quanto sia elevato il grado di interdipendenza delle economie e quanto sia più difficile del previsto separarle senza affrontare costi inattesi. Un’altra novità dell’età dell’oro, o presunta tale, avviata con la presidenza Trump, è la constatazione di quanto siano più centrali e decisivi i grandi protagonisti dell’innovazione, da Elon Musk a Jeff Bezos, rispetto ai poteri classici della finanza, da Goldman Sachs a JpMorgan
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