Kylie Moore-Gilbert, accademica australiana rilasciata nel 2020 dopo un lungo carcere duro in Iran, racconta le condizioni di isolamento e le bugie disseminate nel carcere di Evin.
L'isolamento, gli interrogatori, le bugie. Non c'è nulla di “reciproco” con l'Italia nel carcere duro in Iran Milano. “Sono finita davanti a una corte iraniana nove mesi dopo il mio arresto e la mia detenzione a Evin, e il mio governo non era stato avvertito”, dice al Foglio Kylie Moore-Gilbert , accademica australiana che è stata arrestata dall'intelligence delle Guardie della rivoluzione iraniane nel settembre del 2018, all'aeroporto di Teheran, ed è stata rilasciata nel novembre del 2020.
Moore-Gilbert, che allora lavorava all'Università di Melbourne nel dipartimento di studi mediorientali, era stata invitata a una conferenza nella capitale iraniana, era rimasta una quindicina di giorni per seguire i lavori e partecipare agli incontri di quel forum, e quando stava per ripartire, già in aeroporto, è stata arrestata, portata nel compound 2A del carcere di Evin – gestito dall'intelligence delle Guardie della rivoluzione, fuori dal controllo di qualsiasi altro apparato del governo: è dove si pensa che sia rinchiusa Cecilia Sala – in una cella di isolamento, senza contatti con l'ambasciatore australiano per quattro mesi. “Credo che la pressione del mio governo e dell'ambasciata australiana in Iran abbiano imposto ai miei carcerieri, dopo quattro mesi, di decidere qualcosa, perché non erano riusciti a obbligarmi a confessare nulla”, dice Moore-Gilbert. Il sistema di carcerazione a Evin è “deliberatamente disegnato per tagliarti fuori da tutto, così tu non sai nemmeno se qualcuno si sta occupando di te”: è bene che si sappia, dice, che il vuoto d'informazione in cui si vive in condizioni durissime di isolamento viene riempito da bugie e interrogatori, “ho saputo che c'era una campagna per la mia liberazione dopo un anno”
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