La Democrazia e il Terzo Mandato: Un Dilemma Italiano

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L'articolo esplora il dibattito in Italia sul terzo mandato consecutivo per i presidenti di regione, analizzando argomenti a favore e contro, con un focus sulla prospettiva anti-oligarchica e le implicazioni per la democrazia.

La tendenza attuale, sempre più irresistibile a livello globale, è a deformare la democrazia appellandosi ai suoi princìpi e valori. Ci si richiama enfaticamente ad essi per dare vita a prassi e procedure che in realtà la alterano e le tolgono di sostanza.

Prendiamo ad esempio la discussione in corso sulla possibilità di concedere un terzo mandato elettivo (e magari, perché no?, anche un quarto e un quinto), consecutivi beninteso, ai presidenti di regione che ne abbiamo già espletati due (il fatto che sia già successo non significa che debba succedere ancora, per i motivi che adesso diremo). Chi è favorevole a una simile estensione – a partire, va da sé, dai diretti interessati – si basa tendenzialmente su due argomenti. Il primo sostiene che si tratta di una soluzione che più democratica non si potrebbe. Perché togliere ai cittadini, sovrani per definizione, la possibilità di farsi governare da chi vogliono loro per tutto il tempo che desiderano, cinque o quindici o trent’anni anni non fa differenza? Se la volontà popolare è sacra e intangibile e se le elezioni (cioè la scelta dal basso e a maggioranza dei governanti) sono il sale della democrazia porre limiti temporali eccessivamente rigidi all’esercizio di una carica non rischia in effetti di ridurre la libertà di scelta del tanto invocato “popolo”? Un ragionamento sulla carta inappuntabile e convincente, ma in realtà fallace. Nella patria di Gaetano Mosca – il celebre teorico della classe politica: della sua necessità, non della sua inamovibilità – non dovrebbe infatti essere difficile, per chi abbia letto anche solo qualche paginetta dei suoi scritti, comprendere quale sia la ragion pratica che suggerisce la definizione per legge di limiti stringenti per i mandati elettivi riferiti a cariche pubbliche: evitare che dall’uso (legittimo) del potere si passi al suo (anche solo involontario) abuso. Il divieto di un terzo mandato, lungi dall’essere anti-democratico, è dunque una misura fisiologicamente anti-oligarchica, finalizzata a favorire il periodico ricambio al vertice della catena di comando politico. I presidenti di regione hanno oggi poteri davvero grandi e incisivi (e ne chiedono di più): dieci anni sono un tempo di governo sufficiente se non si vuole che essi diventino un ostacolo alla concorrenza politica, un fattore di freno al cambiamento e attori troppo condizionanti la vita scena pubblica di un territorio. Ma i fautori del terzo mandato tirano in ballo (in modo ancor più polemico) anche un altro sacro principio democratico: l’autogoverno, l’autonomia territoriale. Se gli abitanti di una regione non possono scegliersi per guida chi gli pare, quando gli pare, per tutto il tempo che pare loro, non si rischia di cadere nel centralismo più bieco e vetusto? Libertà dal basso vs dirigismo dall’alto: come non dare ragione a chi difende la prima contro il secondo? In realtà, anche in questo caso viene facile obiettare che lo Stato, stiamo parlando di quello italiano, impedendo un terzo mandato consecutivo non vuole limitare la possibilità dei cittadini di autodeterminarsi a livello comunitario. Vuole solo evitare, nell’interesse degli stessi cittadini, che le unità territoriali che lo compongono (a partire appunto dalle regioni) si comportino su questo punto politicamente assai dirimente – quanti mandati consecutivi può ragionevolmente fare un presidente di regione eletto direttamente dai cittadini? – in maniera difforme e anarchica. Le differenze territoriali non possono essere giocate contro lo Stato che le comprende e, nel caso della Costituzione italiana, le valorizza. Tanto meno possono impedire l’esistenza di regole omogenee e complessivamente vincolanti a livello nazionale. Proprio per questo esiste una legge quadro statale – la n. 165 del 2 luglio 2004 – con la quale, a integrazione di quanto si trova scritto nell’art. 122 della Costituzione (uno di quelli che nel 1999 ha maldestramente modificato i rapporti tra Stato e autonomie regionali col pretesto di inseguire le ubbie ideologiche del federalismo leghista), si è stabilito come principio generale al quale le Regioni dovrebbero attenersi (lettera f dell’articolo 2) la “non immediata rieleggibilità allo scadere del secondo mandato consecutivo del Presidente della Giunta regionale eletto a suffragio universale e diretto, sulla base della normativa regionale adottata in materia”. Un’espressione, quella finale, ahimé equivoca e mal scritta. Alcuni la considerano infatti una regola stringente, in virtù della quale i due mandati sono da considerarsi un limite invalicabile. Secondo altri, si tratta di una disposizione generica, che non impedisce alle singole regioni di decidere in autonomia diversamente. È materia per costituzionalisti e tecnici del diritto. Dopo la scelta del governo di impugnare la legge della Regione Campania che autorizza il terzo mandato toccherà alla Consulta dirimere la questione. Ma più importante del nodo giuridico resta pur sempre quello politic

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