La legge di bilancio 2025 introduce modifiche significative alla Digital Service Tax (DST) italiana, definendo l'imposta sui servizi digitali al 3% per le imprese con ricavi globali superiori a 750 milioni di euro. Si analizzano le novità introdotte, le differenze con le web tax di altri Paesi del G7 e le prospettive future con l'attuazione del Pillar 1 dell'Ocse.
La legge di bilancio 2025 ridisegna il perimetro della Digital Service Tax ( DST ) italiana, in attesa delle evoluzioni a livello internazionale sul Pillar 1 .
Il nuovo articolo 1, comma 36 della legge 145/2018 (recentemente modificato dall’articolo 1, comma 21 della legge 207/2024) definisce l’imposta sui servizi digitali nella misura del 3% applicata alle imprese che realizzano nel territorio dello Stato – a prescindere dall’ammontare - ricavi derivanti da servizi digitali e realizzano, singolarmente o a livello di gruppo, nell’anno solare precedente, un ammontare complessivo di ricavi, ovunque realizzati, almeno pari a 750 milioni. Le prime proposte di modifica prevedevano l’eliminazione di entrambe le soglie dimensionali: ciò avrebbe comportato una notevole estensione dell’ambito applicativo dell’imposta che non avrebbe più colpito i cosiddetti «giganti del web» quali primi destinatari della misura. Il testo poi approvato dal Parlamento ha disposto l’eliminazione della (sola) soglia dimensionale relativa ai ricavi derivanti dai servizi digitali realizzati in Italia, tenendo salvo il primo requisito relativo all’ammontare complessivo di ricavi ovunque prodotti. Sono state introdotte modifiche anche per gli adempimenti fiscali: le imprese contribuenti dovranno versare entro il 30 novembre dell’anno solare di riferimento un acconto pari al 30% dell’ammontare dell’imposta dovuta per l’anno solare precedente ed entro il 16 maggio dell’anno solare successivo il saldo dell’imposta dovuta. Si tratta dei proventi derivanti: (a) dalla veicolazione su un’interfaccia digitale di pubblicità mirata agli utenti; (b) dalla messa a disposizione di un’interfaccia digitale multilaterale che consente agli utenti di essere in contatto e di interagire tra loro, anche al fine di facilitare la fornitura diretta di beni o servizi; (c) dalla trasmissione di dati raccolti da utenti e generati dall’utilizzo di un’interfaccia digitale. Confermate anche le attività escluse dal perimetro dell’imposta e contenute nella negative list. L'Italia si pone nel solco di altri Paesi del G7, con particolare riguardo alle web tax francese e inglese, seppur con delle differenze riguardo a soglie, aliquote e servizi interessati. Nel Regno Unito è in vigore una DST del 2% sui ricavi derivanti dai servizi digitali (social media, motori di ricerca e servizi di mercati online) che eccedono la soglia di 25 milioni di sterline. In Francia, invece, la DST si applica nella misura del 3% per le società con un fatturato globale superiore a 750 milioni di euro e un fatturato “digitale” superiore a 25 milioni in Francia derivante da servizi di intermediazione digitale e di pubblicità mirata. Fuori dallo scacchiere della DST si colloca invece la Germania, che non ha implementato un’imposta sui servizi digitali. Oltreoceano la situazione è a macchia di leopardo. La DST è in vigore in Canada e si applica nella misura del 3% ai ricavi da servizi digitali superiori a 20 milioni di dollari, mentre Stati Uniti, Cina e Giappone non l’hanno implementata. In India è previsto un prelievo di “perequazione” del 6% simile nella sostanza a una DST ma diverso per natura del tributo e presupposti applicativi. Per il futuro, sarà importante monitorare l’evoluzione normativa internazionale, in quanto con la completa attuazione del sistema dei due pilastri dell’Ocse (e in particolare del Pillar I) è finora previsto che le DST nazionali andranno a scomparire e il gettito sarà sostituito da quello a carico delle grandi imprese previsto dal cosiddetto Amount A del Pillar I
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