Nel 2023 mezzo milione di persone ha rischiato la vita per arrivare negli Stati Uniti percorrendo a piedi la pericolosa giungla che separa la Colombia da Panamá. Una giornalista e una fotografa si sono unite ad alcuni gruppi di migranti Leggi
Si sono radunati nel buio prima dell’alba. I bambini smaniano, con gli occhi ancora assonnati. Gli adulti, bimbi in braccio e zaini in spalla, ascoltano con attenzione un uomo del Clan del Golfo, il più potente cartello della droga colombiano, che urla istruzioni al megafono, sovrastando temporaneamente il canto degli uccelli e il suono degli insetti della giungla: “Assicuratevi che tutti abbiano abbastanza da mangiare e da bere.
Chi lavora nel Darién deve avere l’approvazione del cartello e cedergli una parte dei guadagni. Gli uomini del Clan hanno costruito scalinate sulle colline e hanno attrezzato le pareti rocciose con scale a pioli e accampamenti con il wifi. Pubblicizzano tutto su TikTok e YouTube, e chiunque può prenotare il viaggio online. Ci sono vari percorsi.
Per attraversare la giungla possono volerci tre giorni oppure dieci, a seconda del tempo, del peso dei bagagli e del caso. Un piccolo infortunio può essere una catastrofe anche per i più allenati. I trafficanti spesso mentono sulla durata del viaggio: a Bergkan, per esempio, hanno detto di prepararsi per un paio di giorni. Dopo qualche ora Bergkan si rende conto che abbiamo fatto molta meno strada del previsto e che le provviste non basteranno.
María Fernanda Vargas, 28 anni, è consolata dalla figlia di 7 durante la traversata del Darién, 15 dicembre 2023 (Un percorso meno battuto Si sparge la notizia che ci stiamo avvicinando al confine con Panamá. I portatori, che da due giorni non fanno altro che offrire i loro servizi, non parlano più. A Panamá lucrare sull’immigrazione è illegale e può portare a una condanna a più di dodici anni di reclusione. La polizia di frontiera panamense, chiamata Senafront, arresta chi vende bottiglie d’acqua ai migranti, gli porta i bagagli o gli fa da guida.
Dopo un giorno di cammino ci fermiamo a dormire in un altro campo, dove facciamo amicizia con un gruppo allargato guidato da María Fernanda Vargas, una donna venezuelana, madre di tre bambini, che vive con la famiglia in Cile. Il gruppo è stato creato da persone che si sono conosciute sui social network e hanno aggregato altri migranti lungo la strada. Ora sono in ventuno, tutti del Venezuela tranne uno.
A mezzogiorno arriviamo al campo La Bonga, l’unico nella giungla dove il governo panamense autorizza la vendita di viveri e acqua ai migranti. Lynsey e io incontriamo una decina di agenti della polizia di frontiera che sono stati incaricati di seguirci come condizione per il nostro viaggio. Ci trasciniamo nel fango e tra i fiumi per sei ore prima di fermarci per la notte. Piove a intermittenza. Gli adulti, che si dividono poche tende, devono fare i turni per dormire.
Per quattro ore ci alterniamo tra passo veloce e corsa, spingendoci ben oltre quello che pensavo fisicamente possibile. Alla fine ci lasciamo alle spalle la giungla e sbuchiamo su una spiaggia di sassi: ci sono centinaia di migranti che aspettano. Molti non mangiano da giorni. Sui muri della case di Bajo Chiquito ci sono dei volantini con la foto di un bambino scomparso, un vietnamita di 9 anni. Le autorità panamensi mi hanno detto che i bambini rimasti separati dalla famiglia nella giungla sono presi in custodia finché non arrivano gli adulti. In realtà, intervistando le persone in fila, incontro una bambina ecuadoriana di cinque anni che è arrivata con un gruppo di estranei a cui si è unita nella giungla.
Le traversate in barca non si sono mai fermate, ma la loro gestione è passata alle organizzazioni criminali, che le pubblicizzano come opzione “vip” e fanno pagare più di mille dollari a persona. Le barche partono dopo il tramonto, anche quando il mare è molto agitato, e a volte si ribaltano. Quest’anno sono annegate almeno cinque persone, tra cui un bambino afgano.
L’elemento chiave di questi controlli, spiegano i funzionari, è distinguere tra i rifugiati e i migranti economici. Ma la maggior parte delle persone non lascia il suo paese per un motivo solo. Molte di quelle che ho incontrato nel Darién sanno quali casi hanno la meglio nei tribunali statunitensi e sono preparate a enfatizzare gli aspetti della loro storia con cui hanno più possibilità di mettere al sicuro i figli.
Orlimar e sua cugina Elimar non si parlano più. Hanno litigato a una stazione di pullman in Honduras, quando Elimar, stanca di aspettare che Bergkan racimolasse in giro soldi a sufficienza per proseguire, ha comprato i biglietti per sé e per i suoi figli. Ha detto a Orlimar che se ne stava andando solo pochi istanti prima di salire sul pullman.
Da diciotto anni Moreno gestisce il fatiscente ospedale di El Real. L’obitorio della struttura è uno dei tanti dove sono portati i corpi ritrovati nel Darién. Moreno sostiene di aver maneggiato i resti di persone “di ogni paese e di ogni età”. Alcuni arrivano con i documenti di identità ancora sigillati nelle buste di plastica portate da casa. Altri sono solo ossa.
Nella giungla gli spostamenti erano lentissimi e si sono ritrovati quasi subito a corto di provviste. Il quinto giorno hanno guadato un fiume, identico a decine di altri che avevano già attraversato. Nessuno dei due sapeva nuotare, perciò si sono attaccati al braccio di un ecuadoriano di nome Juan.
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