Un'analisi dettagliata della situazione a Gaza dopo l'accordo di cessate il fuoco, con un focus sulle difficoltà incontrate dai mediatori, le imprecisioni nell'accordo e il ruolo chiave del Qatar e degli Stati Uniti.
Quando Israele ha vietato a 500mila palestinesi di attraversare il corridoio di Netzarim, fermando la traversata delle macerie verso Nord per raggiungere quello che rimane delle loro case, al Cairo, Doha e Washington si sono attivate le linee di emergenza. Il primo ministro Benjamin Netanyahu , bloccando il passaggio, rispondeva alla mossa di Hamas che ha liberato quattro soldate ostaggio trattenendo però, per la seconda volta, la civile ventinovenne Arbel Yehoud.
Una violazione dell’accordo che stabilisce il rilascio delle civili prima delle donne militari. Un imprevisto che apparentemente ha rischiato di far saltare il cessate il fuoco. Ma i mediatori erano pronti: dopo un anno e tre mesi di faticosissima negoziazione, sapevano che durante questa fragile tregua si sarebbero trovati davanti a degli ostacoli. E li hanno previsti: come, per esempio, il fatto che Yehoud non è nelle mani di Hamas ma in quelle della Jihad islamica palestinese, che vuole «prendersi il merito» di qualche azione. O le difficoltà e le tensioni nate con l’apertura d’un corridoio umanitario, quello di Netzarim. Qualche ora di crisi, ed è arrivato il sorprendente annuncio dal primo ministro del Qatar, lo sceicco Mohammed Al Thani: «Arbel Yehoud verrà liberata giovedì con altri due ostaggi. I gazawi possono andare a Nord». Come sono andate le cose, lo spiega al Corriere il portavoce del primo ministro del Qatar, Majed al-Ansari: «Da quando abbiamo iniziato a lavorare su questo accordo, ci siamo assicurati che ci fosse un meccanismo rapido di risoluzione dei problemi con il team di negoziatori del Qatar, Egitto e Stati Uniti. Stiamo lavorando insieme per assicurarci di trovare soluzioni creative e un linguaggio sul quale entrambe le parti possano concordare immediatamente. Ed è una delle ragioni per cui per ora funziona». Il Qatar è il Paese che ha le comunicazioni dirette con l’ufficio politico di Hamas a Doha. Oltre alla gestione politica dei rapporti, con altri mediatori, monitora l’arrivo degli aiuti a Gaza. Al Ansari parla delle ottime relazioni con Donald Trump e il suo nuovo inviato speciale in Medio Oriente, Steve Witkoff: «Il rapporto con l’amministrazione americana, in questo momento, è molto forte. Siamo in comunicazione quasi quotidiana con Witkoff, al fine di mantenere l’attuazione dell’accordo. La loro collaborazione è stata determinante per questa tregua». Tutti gli analisti concordano che sia stato l’arrivo di Donald Trump ad aver portato alla svolta nella guerra. Se Netanyahu poteva dire «no» all’amministrazione Biden che a maggio ha presentato un piano quasi sovrapponibile a quello attuale, fa più fatica a contrapporsi al tycoon — molto popolare in Israele — e con la sua agenda nella regione. Per Trump, al primo posto ci sono gli Accordi di Abramo e la normalizzazione dei rapporti tra Israele e l’Arabia Saudita, che possono passare solo attraverso un accordo di pace. Il punto è isolare gli ayatollah d’Iran, oggi spaventati dell’imprevedibilità di The Donald. Non è una novità che Netanyahu mal digerisca la tregua a Gaza, ma le pressioni americane si sono fatte sentire. Si racconta che Witkoff gli avrebbe inviato un messaggio eloquente: «Trump ti ha aiutato; ora è il tuo turno». Al Ansari ricorda che «la sfida più grande che abbiamo davanti è l’arrivo del sedicesimo giorno, quando inizieranno i colloqui sulla seconda fase. Qui rivaluteremo l’impegno di entrambe le parti. Possiamo provare a spingere per un negoziato molto rapido, ma sappiamo che sarà difficile. Si dice che c’è chi non voglia arrivare alla fase due e voglia riprendere la guerra: noi pensiamo che la comunità internazionale non debba permetterlo»
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