Tra l’Italia di Mancini e quella di Spalletti sembra non cambiare nulla, sempre 4-3-3 sarà, eppure cambia tanto, quasi tutto. Stessa pell...
Tra l’Italia di Mancini e quella di Spalletti sembra non cambiare nulla, sempre 4-3-3 sarà, eppure cambia tanto, quasi tutto. Stessa pelle ma diversi il cuore, l’anima, il principio di base del gioco: da calcio meccanico a calcio liquido. Spalletti non ha avuto molto tempo per spiegarlo nella prima conferenza a Coverciano, troppi gli argomenti da toccare in meno di un’ora, ma il termine “liquido” lo ha già sfoderato.
Con Mancini non c’era nulla di liquido. I reparti erano più importanti degli uomini. Ne conseguiva un sistema rigido. Per renderlo efficace servivano intensità, convinzione e lucidità, tutte qualità sparite dopo Wembley: non a caso a quel punto il sistema era diventato un limite. Serviva una variabile interna al sistema di gioco ma Mancini non è stato in grado di trovarla, allora ha cambiato schema fino agli ultimi tentativi falliti con la difesa a tre e all’autoesonero.
Se il sistema-Mancini semplificava la vita ai giocatori, il vangelo secondo Spalletti richiede calciatori pensanti, evoluti, capaci di leggere e interpretare la manovra in diretta e agire di conseguenza. Il modulo è lo stesso ma le conoscenze devono essere più profonde, motivo per cui in questi giorni a Coverciano gli allenamenti sono quasi esclusivamente riservati alla tattica. Spalletti sta testando chi non conosce. E a chi conosce, da Di Lorenzo e Raspadori, ha chiesto una mano.
Nell’idea di un calcio liquido, i giocatori non coprono un ruolo ma eseguono un compito. Così il terzino destro, Di Lorenzo, affianca il regista in fase di costruzione oppure si ferma e compone una difesa a tre con Scalvini e Bastoni e libera Dimarco a sinistra nell’abituale posizione da quinto coperta nell’Inter. Una situazione non esclude l’altra perché l’alternanza manda fuori giri l’avversario.
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