BRUXELLES - Avvicinò sempre di più i destini dei popoli del Vecchio Continente, sancendo al tempo stesso i rigidi paletti da rispettare per tenere in ordine i conti pubblici.
BRUXELLES - Avvicinò sempre di più i destini dei popoli del Vecchio Continente, sancendo al tempo stesso i rigidi paletti da rispettare per tenere in ordine i conti pubblici. E diede così all'Ue il volto di oggi. Celebre a tutti per aver gettato le basi della moneta unica e della cittadinanza europea, il Trattato di Maastricht giunge al suo trentesimo anniversario affrontando la sfida della riforma del Patto di stabilità e crescita.
Firmato il 7 febbraio 1992 nella cittadina olandese di confine ed entrato in vigore allo scoccare della mezzanotte del 1° novembre 1993, nelle intenzioni dei dodici leader europei artefici dell'intesa - tra cui il presidente del Consiglio italiano Giulio Andreotti, il cancelliere tedesco Helmut Kohl e il presidente francese Francois Mitterand - il Trattato avrebbe dovuto rappresentare il primo passo verso un'Unione economica, monetaria e politica.
A dividere sul terreno economico sono da sempre i criteri omonimi fissati a Maastricht per entrare nella moneta unica: un rapporto deficit/Pil non superiore al 3% e un debito non oltre il 60%. Paletti mai del tutto rispettati, a partire dalla Germania, capofila dei rigoristi eppure la prima - insieme alla Francia - a chiedere nel 2003 una sospensione delle procedure d'infrazione previste dal Patto, dopo aver violato per due anni di fila la regola del disavanzo.
A dare nuova linfa alla nuova governance economica, finalità chiave nel mandato della Commissione europea targata Ursula von der Leyen, sono stati sul finire del 2021 il presidente francese Emmanuel Macron e l'ex premier italiano Mario Draghi: serve"più spazio di manovra" - il loro appello - per gli investimenti necessari a sostenere la crescita e le nuove generazioni davanti agli choc economici e geopolitici. I parametri di Maastricht, va detto, non si toccano.
Il dibattito risuona sempre simile a se stesso: da una parte i rigoristi, capeggiati da Berlino, che vorrebbero un target minimo annuale - uguale per tutti - di rientro del debito. Dall'altra le istanze delle colombe del Sud, che invocano flessibilità e chiedono lo scorporo degli investimenti dal calcolo del deficit per le aree strategiche come la svolta green e la difesa.
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