Uno studio dell'Università di Milano ha individuato quattro nuovi tipi di portainnesti, chiamati “M”, che permettono di coltivare vitigni resistenti alla siccità e al calcare. Gli studiosi sottolineano come questi portainnesti possano migliorare significativamente la qualità dell'uva e del vino, offrendo una soluzione contro la crisi idrica che sta colpendo il settore vitivinicolo.
Tra la crisi climatica, che inaridisce la terra, e la contrazione dei consumi legata a salutismo e nuove proposte del mercato, il mondo del vino oggi ha bisogno di puntare tutto sulla qualità e di trovare soluzioni contro la siccità. Mentre il dibattito si arroventa tra mille polemiche, una risposta arriva dalla scienza. In particolare, da uno studio che negli ultimi anni è andato a fondo – letteralmente – alla questione, indagando e sperimentando sui portainnesti, cioè le radici della vite.
Un team di ricerca dell’Università di Milano, guidato dai professori Attilio Scienza e Lucio Brancadoro, con il supporto dalle aziende di Winegraft, ha individuato una serie di 4 apparati radicali – che prendono il nome di “M” – in grado di far crescere vitigni resistenti alla siccità e al calcare. Stiamo parlando del 30-40% di acqua in meno consumata dalla pianta: si calcola che se tutti i vigneti della Lombardia fossero innestati sugli M, si risparmierebbe ogni anno 426 milioni di ettolitri di acqua, pari a due volte e mezzo il lago d’Iseo. Inoltre, sono capaci di dare vita a uve, e quindi a vini, di qualità superiore. Ed è quest’ultima la novità, emersa in questi giorni, che si prepara a rivoluzionare il settore. La nuova generazione di portainnesti selezionati dai ricercatori mostra come proprio da quei filamenti che si insinuano nella terra possa nascere qualcosa di straordinario. Dalle sperimentazioni è emerso che i quattro tipi di radici oggetto di studio sono in grado di portare il vitigno a migliori performance produttive in tutti i diversi aspetti che determinano la qualità dell’uva e quindi del vino: vigore e produzione del ceppo, maturazione fenolica e aromi delle uve. La svolta dello Chardonnay: spumanti più freschi Gli esperimenti hanno riguadato diversi tipi di uve. In particolare, dagli studi è emerso che il Cabernet Sauvignon innestato sugli M migliora in generale i risultati produttivi, bilanciati da una buona vigoria e presenta valori di zuccheri superiori alla media. Più zuccheri anche nello Chardonnay messo a dimora in vigneti in un confronto tra Franciacorta e Trentodoc, con livelli superiori di acidità (di acido malico in particolare, responsabile della morbidezza delle bollicine) e minore pH, elemento determinante per una produzione spumantistica di qualità. L’analisi sensoriale dei vini ottenuti da Chardonnay innestato con gli M allevato in Franciacorta ha evidenziato livelli superiori di acidità e un profilo aromatico complesso che esalta le note di frutta tropicale: dal punto di vista olfattivo, questi vini sono risultati più intensi e, alla prova del gusto, con una maggior acidità, sapidità, struttura e persistenza. Oltre che sui parametri tecnologici, si è visto quanto il portainnesto influisca sulla maturazione, aspetto determinante nella qualità dei vini rossi. Nei campi di confronto in combinazione con diversi vitigni rossi - Nero d’Avola, Cabernet Sauvignon e Sangiovese – sono stati rilevati livelli più alti di polifenoli totali nelle uve innestate sulle radici oggetto di studio, una più accesa tonalità delle sostanze coloranti oltre a una maggiore concentrazione. Risultati interessanti anche sul piano della composizione aromatica delle uve: è emerso che i portainnesti M la condizionano in maniera determinate perché migliorano le performance della pianta rispetto alle condizioni ambientali. Venti anni di studio ed esperimenti “Siamo riusciti finalmente a dimostrare che anche nella viticoltura, come ormai accreditato negli altri ambiti delle colture arboree – ha spiegato Attilio Scienza – il portainnesto è un prezioso veicolo di miglioramento qualitativo della produzione. Sono stati necessari due decenni di sperimentazione in campo e articolate microvinificazioni per arrivare al risultato perché è oggettivamente più difficile in viticoltura svolgere approfondite indagini sull’effetto del portainnesto sulla qualità delle uve a causa delle complesse interazioni che si creano tra questo, l’ambiente di coltivazione e i diversi vitigni”. Gli studiosi evidenziano come le recenti scoperte ribaltino la vecchia credenza che ha accompagnato la diffusione di queste preziose radici, spesso considerate solo per il loro ruolo contro la diffusione della fillossera (la storica invasione risale alla fine del XIX secolo). “La portata di quest’ultima ricerca dell’Università di Milano è veramente rivoluzionaria - commenta Marcello Lunelli, presidente di Winegraft – Da oggi in poi non dobbiamo più considerarli solo una “barriera contro” fillossera, siccità, ecc. ma come un efficiente strumento biologico “per” ottenere una superiore qualità dell’uva e quindi del vino”. Come sottolinea Lucio Brancadoro, gli M mostrano una “estrema adattabilità ai diversi ambienti della viticoltura italiana. Rispondendo in modo più efficiente agli stress sempre più estremi a causa del cambiamento climatico”. Uno strumento contro la siccità Da non sottovalutare è infatti l’aspetto della lotta alla crisi idric
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