L'opera composta da Gluck a metà '700 è diventata una sorta di moderna autoanalisi. Applaudita dal pubblico
Un viaggio. Dentro le ragioni dell'amore; ma anche dentro quelle del teatro. Un viaggio quello intrapreso da Orfeo per ritrovare la sua Euridice; un viaggio quello proposto da Damiano Michieletto al Festival dei Due Mondi, col suo magnifico Orfeo ed Euridice. Ecco il segreto di uno dei massimi registi d'opera al mondo, e uno dei pochissimi che sappiano leggere in chiave moderna opere del passato: mettersi al servizio dell'opera; non prevaricarla col proprio narcisismo.
Ma che interesse possono avere per noi, oggi, questo mito classico, e l'opera che da esso trasse Gluck nel 1762? Gli spettatori che alla fine dello spettacolo spoletino si spellavano le mani ad applaudirlo, avevano scoperto che, in realtà, quello spettacolo parlava proprio a loro; e di loro stessi. Glielo aveva rivelato Michieletto con un'interpretazione originale ma questo il miracolo - rispettosissima dello spirito gluckiano.
Il momento in cui Orfeo, girandosi a guardare l'amata, viola il patto provocandone il nuovo inabissarsi, è un altro momento di grande teatro. E all'happy end conclusivo si scatenano liberatori gli applausi di un pubblico che non ha solo assistito ad un grande spettacolo; ha viaggiato dentro sé stesso.
Protagonista vocale indiscusso, coinvolgente ed emotivo nonostante il composto rigore della musica gluckiana è stato Raffaele Pe: una superstar fra i controtenori, che con la sua voce da contralto femminile spiazza gli spettatori tradizionali, ma entusiasma i fan di quest'uso barocco riesumato dai gusti moderni.
Validamente gli ha tenuto testa l'Euridice disegnata da un'intensa Nadja Mchantal; mentre brillante è risultato l'Amore di Susan Zarrabi, una sorta di dispettoso «magician» in cilindro e frac di paillettes. Vedere spettacoli di un tale, intelligente livello - infine - risarcisce di tante, troppe regie d'opera di arrogante insulsaggine.
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