Un'analisi del perché il tecnico Thiago Motta preferisce schierare Kolo Muani e Locatelli in attacco, anziché la coppia Vlahovic-Kolo Muani, nonostante potenzialità e caratteristiche complementari.
La domanda iniziale, scontata al limite della banalità, è facile: ma perché Lautaro e Thuram possono giocare insieme e Kolo Muani e Vlahovic no? La risposta è difficile, anzi impossibile, perché dal punto di vista tecnico - diciamo così - non ci sarebbero controindicazioni. È evidente che ogni allenatore ha il suo modo di concepire il calcio - chi preferisce allargare il campo, chi ama stringerlo - però i due juventini sembrano fatti apposta per essere complementari.
Almeno come i due nerazzurri. Kolo Muani ha forza, tecnica, ma non è uno che si mangia l'area di rigore, staticamente. Anzi, ama un compagno di reparto ed infatti, con la nazionale francese, ha spesso fatto coppia proprio con Thuram. Ad esempio nella partita vinta in casa dell'Italia. A Vlahovic piace fare da sponda o ricevere la sponda, ama la profondità, la progressione; e come ha confessato in tempi non sospetti - anzi, proprio quello ha un po' indispettito? - vorrebbe sempre avere al fianco un compagno di avventura. Dicevamo della voglia o dell'ispirazione di ogni allenatore ad allargare o stringere il campo. È chiaro che Thiago Motta rientra nella prima categoria e per questo - più che legittimamente - ha tanto investito sugli esterni. Ma è altrettanto vero che la Juve, non disponendo a centrocampo di creativi, potrebbe o dovrebbe sfruttare il senso della profondità, che rientra di più nelle corde di Locatelli, Thuram e dello stesso Koopmeiners. Insomma come Lauraro e Thuram, anche i due juventini - per caratteristiche - sembrano fatti apposta per salire su un tandem. Ma, naturalmente, se questa non è la direzione di Thiago Motta, bisogna prenderne atto. Però colpisce, forse addirittura di più, che Vlahovic sia scivolato così indietro nelle gerarchie, finendo per non essere più neanche un'alternativa vera al francese. Al punto che ogni volta, in ogni partita, Kolo Muani parte titolare, senza più un attimo per rifiatare. E allora viene da chiedersi: ma a cosa servono tutti quei bei discorsi, che gli allenatori infarciscono spesso con slogan un po' consumati, sull'opportunità di poter dare un cambio, avere una soluzione garantita, ad ogni giocatore? Thiago Motta ha persino ringraziato, pensate un po', Vlahovic per aver tirato la carretta quando non aveva altra scelta. Ora che la scelta c'è, tocca a Kolo Muani giocare in campionato e in Coppa senza un attimo di respiro. E senza derogare allo schieramento con un solo terminale. Come dire, per fare un paradosso, che Ancelotti avrebbe dovuto scegliere tra Inzaghi e Sheva o tra Chiesa e Crespo, Mourinho tra Milito ed Eto'o, Allegri tra Mandzukic e Higuain, Sacchi tra Gullit e Van Basten, Radice tra Pulici e Graziani, o che il destino e gli infortuni abbiano sollevato Cuper dall'imbarazzo di dover decidere tante volte tra Ronaldo e Vieri. E non - tornando seri - che proprio per questo abbia pagato alla fine un conto salatissimo. Una questione di punti di vista, certo. Che però stride con l'etichetta che molti allenatori si portano dietro. Come Trapattoni che secondo molti era un difensivista, anche se il suo assortimento di attaccanti era di prim'ordine e basta rileggere le sue formazioni. Come Ottavio Bianchi, che pure riusciva a schierare Maradona e Giordano con Carnevale o con Careca. Ma per tornare ai giorni d'oggi, anzi alla sfida di domenica, come appunto fa Simone Inzaghi che non ha mai pensato - neppure per un attimo - di separare la coppia Lautaro-Thuram. Lui che nell'immaginario è un equilibratore, un pragmatico, un risultatista per dirla con un termine molto di moda in uno stucchevole dibattito. A differenza appunto di Thiago Motta, che è sicuramente un bravo allenatore e viene considerato un innovatore o - per tornare a quello stucchevole dibattito - un giochista. Insomma, si può essere risultatisti con due prime punte e si può essere giochisti anche rinunciando a metà del proprio potenziale d'attacco. Ma forse proprio questa è la bellezza del calcio: una medaglia sempre a due facce
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