Poi si sono fatti strada altri cambiamenti. Mi sono accorta che quando mio marito mi parlava in inglese, gli rispondevo in francese. Mi chiamava mia madre e le parlavo con… Leggi
La prima volta è successo a cena. Stavo dicendo una cosa a mio marito, che è cresciuto a Parigi, dove abitiamo, e improvvisamente non mi è venuta una parola. Era colpa della, lettera di cui in quel periodo cercavo di perfezionare la pronuncia francese. Il fatto che non ne fossi capace era l’ultimo segno della mia americanità: ci riuscivo solo se mi concentravo, ricacciando il suono indietro nella bocca ed espirando allo stesso tempo.
Quando sono arrivata in Francia, però, mi sono resa conto che la mia padronanza della lingua aveva i suoi limiti: non avevo mai parlato in francese con delle persone adulte che non avessero il mio stesso dna. Lo storico culturale Thomas Laqueur, che è cresciuto in West Virginia parlando tedesco, ha avuto un’esperienza simile, scrive la linguista Julie Sedivy in, un saggio sulla perdita della lingua in cui l’autrice racconta di come ha dovuto imparare da capo il ceco.
Anche tornare all’inglese, però, non era così facile. Avevo paura che le nuove espressioni imparate in francese lo contaminassero. Sono la direttrice di una rivista, The Dial, che ho fondato anche con l’obiettivo di far conoscere più giornalisti e scrittori stranieri ai lettori anglofoni.
Anche le lingue in apparenza saldamente radicate in noi sono soggette a erosione. “Quando ci sono due lingue che convivono nel nostro cervello”, dice Monika S. Schmid, esperta di erosione linguistica dell’università di York, nel Regno Unito, “ogni volta che diciamo qualcosa, ogni volta che usiamo una parola, ogni volta che mettiamo insieme una frase, dobbiamo fare una scelta. A volte ne prevale una, a volte l’altra”.
La realtà si è rivelata più complicata. In uno studio scritto a quattro mani con Schmid, Keijzer ha riscontrato che gli olandesi emigrati in Australia non confermavano ciò che aveva previsto. “Si notava più olandese nel loro inglese, ma anche più inglese nel loro olandese”, osserva. Lo schema non era quello di un semplice recupero, ma di una commistione. “Erano meno capaci di separare le due lingue”.
Il marito concordava: “Nel risponderle, mia moglie le avrà detto che non poteva e non voleva parlare in tedesco perché i nazisti avevano ammazzato i suoi genitori. Tra di noi non abbiamo mai parlato in tedesco, neanche nell’intimità”. In altre parole, la nostra vicinanza a una lingua non è solo il frutto della nostra capacità di usarla. È una forma d’identità che può essere modificata dalle circostanze o anche dalla forza di volontà.
Pavlenko ha cercato di dimostrare che parlare una sola lingua non è storicamente la regola ma è piuttosto l’eccezione. Il suo ultimo libro, una raccolta di saggi di diversi studiosi, affronta il tema dell’“amnesia” storica dei ricercatori sulla prevalenza del multilinguismo nel mondo.
L’autrice Yoko Tawada, che si è trasferita in Germania dal Giappone quando aveva poco più di vent’anni, scrive libri sia in giapponese sia in tedesco: usa fluentemente entrambe le lingue. Il suo ultimo romanzo tradotto in inglese,, descrive un Giappone sprofondato sott’acqua, vittima del cambiamento climatico.
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