Dopo il rinvio a giudizio, Daniela Santanchè si è affrettata a smentire le illazioni che la vede criticare il suo partito. La ministra ha assicurato di non aver detto 'chi se ne frega del partito' ma piuttosto 'chi se ne frega di chi mi critica'. Afferma di essere una donna di partito e di non avere dubbi nel caso in cui il presidente del Consiglio le chiedesse di dimettersi. La vicenda ha sollevato tensioni all'interno della coalizione di governo.
Daniela Santanchè (foto) si è affrettata a smentire alcune illazioni che alcuni cronisti le hanno attribuito come commento sprezzante sul suo partito. Dopo il rinvio a giudizio, infatti, tra le fila di Fratelli d'Italia si erano sollevate più voci sull'opportunità, per la ministra, di rassegnare le dimissioni. Ma la risposta della ministra non era rivolta a loro. «I giornali possono scrivere quello che vogliono - spiega la Santanchè -, ma non scrivere quello che non ho detto.
Quanto letto su alcuni quotidiani nazionali mi lascia basita. Ricostruzioni fantasiose. È evidente il pregiudizio di certa stampa. Fortunatamente sono in possesso di una registrazione che dimostra quale sia la verità. Non ho mai detto chi se ne frega del partito ma chi se ne frega di chi mi critica. Sono una donna di partito ed è evidente che se il mio presidente del Consiglio mi chiedesse di dimettermi io non avrei dubbi». Meloni, proprio da Gedda sabato scorso, aveva detto che il rinvio a giudizio di per sé non basta per un passo indietro, ma anche che Santanchè dovrà valutare «l'impatto della vicenda Visibilia sul proprio lavoro da ministro». «L'impatto sul mio lavoro lo valuto io - precisa la diretta interessata -. Nessuno può dire che non lavoro. In due anni e mezzo abbiamo applicato tutto il programma del ministero del turismo». E poi annuncia: «Non mi dimetto. Ero innocente ieri, sono innocente oggi». «Ma da dove arriva tanta sicurezza? - si chiede il dem Vinicio Peluffo - Ci troviamo ancora una volta di fronte a giochi di potere e ricatti interni alla squadra di governo?» Di tensione all'interno della coalizione di governo parla anche il senatore di Italia viva Enrico Borghi. Che ricorda il caso di Del Mastro Delle Vedove. «Per il suo caso, rinviato a giudizio per una questione che riguarda la sua competenza ministeriale non vola una mosca - ricorda il senatore renziano - a differenza di quanto sta accadendo per la Santanchè. La stessa, che si vanta di essere decisionista, ha ammesso di non sapere cosa fare, segno dell'imbarazzo che sta sorgendo nel suo partito». «Con i suoi me ne frego - tuona Nicola Fratoianni (AVS) - la ministra esibisce una sicurezza sospetta e sembra lanciare messaggi in codice alla presidente del consiglio». Insomma a sinistra si sposa la tesi del ricatto interno. Ciò che resta agli atti, al momento, è soltanto una vicenda giudiziaria ancora aperta. Che fa dire, tra l'altro, agli alleati di maggioranza che il rinvio a giudizio non sposta di una virgola il principio del garantismo. «Come ho sempre detto noi siamo garantisti - è il commento del leader di Forza Italia, Antonio Tajani -,E le eventuali dimissioni sono una scelta della Santanchè». Più nel dettaglio entra il vicepresidente della Camera Giorgio Mulè. «Riguardo al rinvio a giudizio per falso in bilancio la ministra non si dimette e la premier non ha esercitato alcuna pressione, e questo dal punto di vista della civiltà giuridica è un fatto ineccepibile. Rispetto all'accusa di truffa ai danni dello Stato - spiega il parlamentare azzurro - , la ministra ha detto che nel caso di un rinvio a giudizio, sarà lei stessa a fare un passo indietro, facendo piazza pulita di qualsiasi altra congettura. Un atto di responsabilità politica rispetto ad un rinvio a giudizio che, lo ribadiamo, non sarà mai e non potrà mai essere un'anticipazione di condanna»
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