Victoria Benedictsson: La Tragedia di una Scrittrice in Guerra con Se Stessa

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Victoria Benedictsson: La Tragedia di una Scrittrice in Guerra con Se Stessa
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La storia di Victoria Benedictsson, una scrittrice svedese che si suicidò a soli 38 anni, rimane un'eco potente dei conflitti interiori dell'artista e della condizione femminile nell'epoca vittoriana. La sua vita, segnata da un desiderio di libertà e riconoscimento, si scontrò con le rigide convenzioni sociali che le negarono piena realizzazione. Questo articolo esplora il suo percorso, dalle prime aspirazioni artistiche alle difficoltà matrimoniali, fino al drammatico suicidio che la consegnò alla storia.

Il 22 luglio 1888, la scrittrice svedese Victoria Benedictsson prenotò una stanza al Leopold Hotel di Copenaghen. Con sé portò uno specchio portatile e un rasoio appena acquistato. Scriveva lettere mentre aspettava l'arrivo del nuovo giorno. Aveva scelto quella data perché era il compleanno della sua seconda figlia, morta anni prima, appena tre settimane dopo la nascita. Passata la mezzanotte, si tagliò la gola con un rasoio. Aveva solo 38 anni.

La sua storia rivive oggi grazie a Elisabeth Åsbrink nel romanzo biografico *Il mio grande, bellissimo odio* (Iperborea), basato su lettere e diari della scrittrice svedese. Victoria Benedictsson brucia ancora oggi come un simbolo dei conflitti interiori dell'artista e della condizione femminile. Il suo personaggio ispirò le eroine suicide di August Strindberg e Henrik Ibsen, Hedda Gabler e Miss Julie. Considerata, insieme a quest'ultimo, la massima esponente del romanzo realista svedese, Benedictsson sognava di affermarsi come scrittrice in un'epoca di grande fermento, ma in cui alle donne era ancora preclusa gran parte della libertà e del riconoscimento che cercava. L'accademia d'arte svedese, il conservatorio e le scuole di medicina erano aperti alle donne e potevano frequentare le lezioni universitarie. Nonostante ciò, gli atteggiamenti pubblici, soprattutto nelle province, erano ancora ristretti e conservatori. Il padre non le aveva concesso di studiare arte come le avrebbe voluto. Erano anni in cui in Europa ci si interrogava se la donna fosse equiparabile all'uomo, se l'essere umano fosse sovrano del proprio destino o prigioniero di convenzioni, se dovessero prevalere la ragione o la moralità. Questioni che nella seconda metà dell'Ottocento furono alimentate soprattutto dagli scrittori e intellettuali nordici come Ibsen, Strindberg e Brandes. In questo fermento, Victoria Benedictsson si muoveva inquieta tra la Svezia rurale e la Danimarca. Nella vivace Copenaghen, sognava di essere libera di scrivere e di amare, sfidando le regole imposte dal suo tempo: da moglie del funzionario postale della cittadina di Hörby arrivò a frequentare le principali icone del suo tempo, come Ellen Key. Autodidatta, aveva sposato in seconde nozze Christian Benedictsson, 30 anni più grande di lei, vedovo e padre di cinque figli. Si era occupata di loro e della loro Hilma senza riuscire a trarre alcuna soddisfazione dalla vita familiare di provincia, poi, costretta a letto per una distorsione al ginocchio, scoprì la scrittura. Come avrebbe detto lei stessa, questo fu il periodo più felice della sua vita. Dalla vita voleva tutto: amore, successo, scambi intellettuali, libertà ma ottenne soprattutto dolore e solitudine. La sua figura si muove fra contrasti e opposizioni: riuscì a essere una 'buona moglie' e una 'cattiva moglie', sposata e separata, non istruita e autodidatta; era confinata ma conquistò la libertà. Solitaria, eppure dominata da una necessità viscerale di vicinanza e complicità; isolata nella Svezia rurale, eppure assidua frequentatrice dei teatri di Copenaghen; donna che avrebbe preferito nascere uomo ma pioniera del femminismo. Il suo tormento interiore derivava dal conflitto tra le aspirazioni artistiche e le costrizioni sociali. Odiava i suoi tratti femminili, diceva di avere 'un cervello da uomo in un corpo da donna', per questo scelse per sé lo pseudonimo Ernst Ahlgren con cui pubblicò romanzi di successo come *Denaro* (1884). Le pubblicazioni le permisero di lasciare la vita angusta in una fattoria nel sud della Svezia. Dopo lunghe battaglie con il marito, armata solo del suo 'bellissimo odio' – una determinazione feroce nel rivendicare ciò che le spettava – riuscì a vivere della sua scrittura e a farsi accogliere nel ristretto circolo di Georg Brandes, il critico e studioso letterario più in vista del momento. Annoiata dalla banalità del suo matrimonio, la Benedictsson partì per Copenaghen, e riuscì a incontrarlo nel 1886. Per impressionarlo, scrisse il suo secondo romanzo, *Madame Marianne*, ispirandosi al *Decameron* di Boccaccio. Ebbe con lui una relazione che si rivelò fatale per la sua autostima: quando lui stroncò il suo secondo romanzo definendolo 'un libro da donne', Benedictsson vide crollare le sue ambizioni letterarie e il sogno di essere amata. Non le restava che uscire definitivamente di scena

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