Perché il concetto di meritocrazia è profondamente diseguale e ingiusto Ne parliamo con Michael Sandel, professore di filosofia ad Harvard | Benedetta Barone
Abbiamo sempre inteso la meritocrazia come un valore intrinsecamente positivo. Il fatto che i successi dipendano dagli sforzi, dall’impegno e dalla determinazione e non da fattori casuali e arbitrari implica che chi arriva al vertice, chi ottiene cariche di potere, chi insomma «ce la fa» è qualificato, competente e forte.
«La globalizzazione ha favorito i lavoratori di settori specifici, come ad esempio coloro che si muovono nell’ambito dell’industria finanziaria. Ne è esclusa la maggioranza dei lavoratori ordinari. La meritocrazia nasce come nobile progetto volto ad abbattere il privilegio ereditario, si proponeva come soluzione alla disuguaglianza ma ha promosso un atteggiamento nei confronti del successo che ha rinforzato e rafforzato la disuguaglianza stessa».
Secondo il filosofo, è stata la cultura biblica occidentale a impartire la logica per cui azioni buone o cattive sono oggetto di ricompense o punizioni. L’idea che la condotta individuale, se virtuosa o deplorevole, ha il potere di decidere di un intero destino e addirittura conduce allo scarto tra condanna e salvazione appartiene alla storia delle nostre origini cristiane ed è oggi alla base dell’atteggiamento nei confronti del successo.
È proprio questa mancanza di senso e di risposte che Sandel chiama a sostegno della sua tesi. La casualità a prima vista spiazzante della condizione umana, il fatto che la pioggia non giunge solo per nutrire e rendere fertili i terreni, ma anche per razziare e distruggere, libera dal peso gravoso della responsabilità e restituisce agli uomini la possibilità della creazione.
Riconsiderare l’assegnazione meritocratica non significa puntare al ribasso. Siamo tutti consapevoli della debàcle in cui è piombata la politica italiana quando si è consegnata all’appiattimento delle competenze per una retorica propagandistica e populista.
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