Raffaele Perinelli: La vita spezzata da una vendetta

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La tragica storia di Raffaele Perinelli, un giovane calciatore di 21 anni ucciso per vendetta dopo una lite con un venditore ambulante. La sua vita, segnata dal crimine familiare, ritrovava un barlume di speranza nel calcio, ma un destino crudele lo condannò all'oblio

Nel perimetro di un campo di calcio Raffaele Perinelli aveva trovato il proprio posto nel mondo. Fu quando uscì da quel perimetro, che il mondo gli presentò il conto. Morì a ventuno anni, ucciso per vendetta con una pugnalata al cuore. Accadde una settimana dopo un banale litigio che aveva avuto con Alfredo Galasso, che di anni ne aveva una decina in più e di mestiere faceva il venditore ambulante.

Ad innescare la lite all’esterno di una discoteca di Bagnoli fu forse una qualche gelosia, forse una qualche vecchia storia, forse una una parola di troppo o un presunto sgarbo. Futili motivi, si chiamano così. Per sette giorni il suo assassino girò con un coltello da cucina infilato nella tasca del giubbotto. Quando trovò il bersaglio della sua ira, cercò lo scontro fisico, volarono gli insulti, ci fu una reazione, quindi il colpo al cuore. Raffaele Perinelli morì a Miano, nell’hinterland a nord di Napoli il 7 ottobre del 2018, davanti al circolo ricreativo del quartiere, in via Janfolla. Morì per strada, come si può morire in posti dimenticati da Dio e abbandonati dallo Stato, dove il degrado attecchisce ovunque e la criminalità ha gioco facile ad imporre la propria legge. Un uomo, che aveva assistito alla lite e che in seguito non venne mai identificato, lo caricò in macchina e lo lasciò, moribondo, all’ingresso del Pronto Soccorso del Cardarelli, l’ospedale cittadino. Ma le ferite erano gravi, Raffaele Perinelli se ne andò da questo mondo in pochi minuti. Un’ora dopo, Alfredo Galasso si recò spontaneamente alla caserma dei carabinieri di Casoria per confessare l’omicidio e dare la sua versione dei fatti. Raffaele - nelle cronache dei giorni successivi - venne sbrigativamente etichettato come “il figlio del camorrista”. Lo era, ma l’etichetta gli era stata appiccicata con la fretta di chi non si prese cura di conoscere la sua storia personale. Era figlio di Giuseppe Perinelli, ex esponente di spicco del clan Lo Russo. Suo padre era stato ucciso in un agguato nel 2003, nel periodo in cui le faide di camorra a Napoli si facevano sempre più sanguinose. All’epoca dei fatti Raffaele aveva solo sei anni. Il bambino era così cresciuto senza padre, tirato su dalla madre, Adelaide Porzio detta Lina. Dopo l’uccisione del padre Lina aveva portato Raffaele e gli altri figli via dal quartiere Sanità. Se n’erano tornati a Miano, da dove lei era partita anni prima. Voleva allontanarli dalla zona d’ombra della criminalità che aveva frequentato suo marito. Ai figli ripeteva che nella loro vita dovevano contare solo tre cose: “Scuola, calcio e lavoro”. Raffaele non aveva disatteso gli auspici della madre. Si era diplomato, lavorava insieme alla madre in una ditta di pulizie (“Si svegliava tutte le mattine alle cinque”, raccontò la signora Lina) e - soprattutto - aveva coltivato la sua passione, il calcio. Raffaele era un calciatore di buone prospettive, sognava di diventare un professionista. Giocava terzino sinistro, era cresciuto nel settore giovanile del Sant’Agnello. In quell’autunno del 2018, quando morì, era svincolato, stava cercando un nuovo club. Aveva chiuso la stagione precedente con la maglia della Turris, disputando il campionato di Serie D, categoria già frequentata con il Gragnano, dopo l’esperienza con il San Martino Valle Caudina, società irpina dilettantistica. La Turris però era fallita e Raffaele si era messo alla ricerca di una squadra. Nel frattempo, in attesa di una sistemazione in una categoria più alta, era stato tesserato dall’Asd Miano, la squadra del suo quartiere. Il calcio l’aveva tenuto lontano dalla malavita e dal crimine. Ci era riuscito, per l’orgoglio suo e della sua famiglia. Quando morì, Lello Perinelli morì da incensurato. Prima del processo, Francesca, sorella di Lello, scrisse una lettera aperta ai giudici: “Cari giudici, vorrei che queste parole arrivassero non alle vostre teste ma ai vostri cuori: Lello è stato ucciso e io e la mia famiglia siamo morti con lui. Vi chiediamo di essere severi con chi lo ha assassinato non per vendetta ma perché crediamo e vogliamo continuare a credere nella Giustizia”. Galasso - che ben conosceva Raffaele: abitava nello stesso quartiere e aveva la residenza in un appartamento a fianco della nonna di Perinelli - si difese dicendo che un amico comune, suo e di Lello, gli aveva mostrato alcuni messaggi ricevuti dopo la lite fuori dalla discoteca. Nei messaggi Lello minacciava di “picchiare a mani nude” il venditore ambulante. Disse, Galasso, di essersi armato per paura di venire ucciso, aggiunse che - quando incrociò Perinelli - lo colpì di istinto, mosso dal terrore di venire aggredito. Il Giudice credette alla sua versione dei fatti. E non accolse l’aggravante della premeditazione. A nulla valse la contro difesa dell’avvocato di Perinelli, che spiegò che quei messaggi erano stati mandati a caldo, due ore dopo la lite, e pertanto dovevano essere addebitati all’adrenalina del momento. Dopo quella lite, infatti, Raffaele era tornato alla sua quotidianit

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