Satoshi Kuwata, giovane stilista giapponese vincitore del LVMH Prize, presenta la sua collezione unisex Setchu a Pitti Uomo. Kuwata fonde tradizione sartoriale, estetica nipponica e pragmatismo, con un occhio di riguardo alla sostenibilità e alla trasformabilità dei capi.
Uno dei meriti di Pitti Uomo , la rassegna di menswear al via martedì a Firenze, è la capacità di unire il lato più classico del settore ai nomi più innovativi. Ottimo esempio di questa commistione è Satoshi Kuwata , che giovedì presenterà nella Biblioteca Nazionale Centrale la sua collezione.
Giapponese trapiantato in Italia, 41 anni, vincitore nel 2023 dell’LVMH Prize — con voto unanime della giuria — Kuwata è sì un nome di nicchia, ma è anche un vero innovatore, capace di fondere tradizione sartoriale, estetica nipponica e pragmatismo. Non a caso il nome del suo brand unisex, Setchu, deriva da wayo setchu, in giapponese l’incontro tra Oriente e Occidente. Com’è arrivato a Milano? «Volevo lasciare il Giappone (ride, ndr). Lì chi fa moda è considerato uno scansafatiche, e anche se la mia famiglia è più aperta — mia zia lavorava con Pierre Cardin a Parigi — i miei genitori erano comunque contrari. Ho capito di dovermene andare e, visto che mi hanno sempre affascinato le regole e il rigore della sartoria, a 21 anni sono andato a Londra per studiarla». E poi? «Ho lavorato per Huntsman&Son, in Savile Row, uno dei luoghi più tradizionali e “anti-moda” che esistano. Volevano che io rimanessi, ma dopo alcuni anni quella severità iniziava a stancarmi, e ho preferito andare via. Ci sono tornato qualche mese fa, per avviare una collaborazione con Davies&Son, altra leggenda locale: non so quanti stilisti offrano un servizio bespoke come il mio». Qual era il suo obiettivo? «Un marchio mio, ma per riuscirci dovevo capire come funziona tutta la macchina: ho lavorato ovunque, da Givenchy a North Face, perché non ho mai pensato che la moda sia solo lusso, vivendo a New York, Parigi e Milano. E qui mi sono fermato». Perché? «L’Italia batte tutti per sviluppo del prodotto, rapporto qualità-prezzo, lavorazioni. In più c’è un senso di solidarietà assente altrove: se qualcuno, sarto o collega che sia, crede in quello che fai, ti supporta fino in fondo. Questa è casa mia, ma mi preoccupa cosa sta accadendo in Italia». Che intende? «I colossi stranieri stanno comprando tutti i laboratori e le piccole manifatture, escludendo così noi marchi piccoli. Il che è un problema per me, e anche per il sistema, che rischia di disintegrarsi». Non è un momento facile per il settore: come lo vive uno stilista indipendente come lei? «Il problema credo sia voler piacere a tutti, offrendo più merce possibile. Così le fabbriche sono sommerse dagli ordini, e il mondo si riempie di scarti. Meglio vendere meno, ma vendere bene. Magari pochi conoscono Setchu, per ora, ma chi ci scopre ci rimane fedele, perché siamo unici. Prenda la camicia, un nostro best-seller, passato in un anno da 10 a 500 pezzi venduti: è fatta a mano a Napoli, e il colletto è staccabile in modo da trasformarsi ed essere usata in più occasioni. Questo per me è un tema fondamentale». Intende la trasformabilità? «Intendo la sostenibilità, nel suo senso più ampio: credo che non pesare sull’ambiente sia utile per tutti. Per esempio, la mia giacca origami è nata guardando le scatole inutilmente enormi in cui vengono spediti i capi: le mie giacche ripiegate diventano piatte, occupando un decimo dello spazio. Meno cartone sprecato, spedizioni meno care. E inventarsi pezzi da indossare in cinque modi diversi nasce dalla volontà di non sprecare. Sto anche studiando un servizio di “upgrade” per i clienti, che possono far aggiungere ai capi già comprati asole e bottoni per accorciarli e cambiarli come vogliono. Un po’ come si aggiornano le app degli smartphone». È difficile inventarsi qualcosa di nuovo nella moda di oggi? «In Italia sì, avete già pensato a tutto: tutti i brevetti per le calzature sono di Salvatore Ferragamo, È incredibile (ride, ndr). Per questo tanti marchi lanciano i nuovi prodotti all’estero: qui siete troppo bravi».
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