L'articolo esamina criticamente la nuova riforma scolastica italiana, concentrandosi in particolare sulle componenti umanistiche come l'introduzione del latino come opzione e l'approfondimento della Bibbia e della storia dell'Occidente. L'autore sostiene che queste scelte, pur essendo oggetto di critiche da parte della sinistra, rappresentano un passo in avanti verso una scuola più inclusiva e aperta al merito.
Ci sarebbero molte ragioni per criticare il ministro Valditara. Tuttavia, il fuoco di fila scatenato contro la parte della riforma che prevede il latino come opzione alle medie, la conoscenza della Bibbia e l'approfondimento nella storia del nostro paese e dell'Occidente, nonché la separazione della geografia dalla storia, non mi sembra una idea né brillante né progressista.
Soprattutto alla luce della grande tradizione della sinistra nella cultura e del convincimento che educazione e merito potessero guidare il riscatto delle classi subalterne rispetto alla concezione “organicista” conservatrice, per cui le differenze di ceto erano permanenti e quasi fisiologiche. Si nasceva colti - e dunque meritevoli di fare parte della classe dominante. L'idea opposta, cioè della cultura come riscatto, era invece quella della “cuoca di Lenin”, che non equivaleva all’uno vale uno, ma alla concezione che anche una cuoca potesse diventare dirigente, dopo la dura scuola delle Frattocchie, cioè la scuola del PCI. Sono anni, d'altronde, che si discute di analfabetismo di ritorno, di qualità bassa della formazione, delle cattive performance dei nostri studenti nei test Pisa OCSE. Grazie a una grammatica più dura, allo sviluppo di conoscenze linguistiche più complesse, come quelle del latino, al rafforzamento della memoria, imposto dal ritorno al saper recitare le poesie, le nuove linee guida vanno in direzione di una scuola più difficile, dunque più inclusiva e aperta al merito, non il contrario. Non a caso, è da tempo che studiosi come Paola Mastrocola, Adolfo Scotto di Luzio, Ernesto Galli della Loggia - gli ultimi due parte del gruppo di lavoro che ha assistito Valditara, con Della Loggia coordinatore -, ragionano contro quell'approccio “ultrademocratico”, che si deve a don Milani, e che ha plasmato la scuola a partire dagli anni '70. E lo fanno con argomentazioni progressiste ma pragmatiche, relative alla capacità della scuola di premiare il merito sul censo. La scuola facile dove non si boccia non aiuta il figlio dell'operaio, che ha solo il suo talento temprato dal duro lavoro per emergere, ma proprio i figli di papà, che possono permettersi tutta l'educazione privata che vogliono per acquisire quelle competenze che la scuola pubblica non offre più od offre male. Da questo punto di vista, solo una scuola più difficile può dare quegli strumenti che servono nella vita, volenti o nolenti. Risibile, infine, è la critica allo studio della Bibbia, bollato come clericale. Per decifrare le grandi opere letterarie dell'Occidente, i monumenti di cui sono tempestate le nostre città, serve conoscere la nostra religione. Perché, come diceva Benedetto Croce, non possiamo non dirci cristiani. Anche da laici. L'attenzione rivolta all'Occidente è poi propedeutica per aiutare i ragazzi a comprendere il loro mondo, non certo per costruire “cittadini sovranisti”, come sostenuto dai critici della riforma. Se la sinistra critica Valditara per queste ragioni, dunque, fa male. Potrebbe e dovrebbe criticarla perché non è abbastanza una riforma. Dove sono in queste linee guida le competenze logiche matematiche che ci portano a fallire nei test Pisa OCSE, o che contribuiscono ai ritardi dei nostri studenti nelle materie STEM? Cosa si fa per combattere l’analfabetismo informatico o per dotare di solide conoscenze nell’ambito della intelligenza artificiale i nostri studenti? È chiaro che se vogliamo risollevare questo Paese, dobbiamo tornare a una scuola più dura, palestra di vita. Più difficile nelle materie umanistiche, sicuramente. Ma molto più difficile soprattutto in quelle scientifiche
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