La Sostenibilità Chic: Un'Apologia per la Povertà?

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Un'introspezione personale sul rapporto con la sostenibilità, tra pratiche necessarie e consumo consapevole.

Ammetto di avere un pessimo rapporto con la sostenibilità , pur praticandola con scrupolo. È che da piccolo nel suo nome mi sono sempre guadagnato gli scarti degli altri: dalle biciclette dei miei cugini gemelli, alle cose che le mie sorelle abbandonavano a ogni giro di crescita, e per fortuna che non sono nato in Scozia se no mi sarei beccato anche le loro gonne.

Nella casa dove sono cresciuto, il riuso, il recupero, la riparazione e il riciclo, prima di essere parole d’ordine chic, erano una condizione di vita, una necessità. A casa mia il divano era rivestito in similpelle, perché la pelle vera era un’esclusiva dei divani di chi stava bene, poi è arrivata l’ecopelle e tutto si è fottuto: è il potere delle parole che se ben usate possono farti sentire. \Mi rivedo ragazzino alle prese con il desiderio di suonare il basso nella band che avevamo fondato con gli amici. Ma di soldi per comprarlo non ce n’erano: recuperai un manico e due pickup sgangherati, mi feci regalare una tavola di legno dal falegname del paese e, con l’aiuto di mio padre, disegnai il body che pazientemente lavorammo sino ad assemblarlo con gli altri pezzi recuperati nel frattempo: dopo un mese avevo tra le mani il mio primo basso che miracolosamente era anche in grado di emettere dei suoni. Per l’amplificatore ci superammo: woofer vetusto elemosinato dall’impianto audio del cinema parrocchiale, testata valvolare marca Geloso, anche questa trovata tra gli scarti dell’oratorio, cassone realizzato in paniforte con rivestimento in sacco di iuta: da lontano poteva sembrare un vero amplificatore per basso elettrico. \Si potrebbe pensare a una storia a lieto fine: oggi probabilmente verrebbe rubricata nel mondo poetico e cool dell’autoproduzione. Ma se aveste chiesto a quel me ragazzino quanto fosse stato felice di quella dotazione vi avrebbe risposto con un sonoro ZERO! Se avesse avuto i soldi si sarebbe precipitato nel negozio Fender per prendersi un bel Jazz Bass nuovo di pacca! Altro che recuperare e riciclare! Quel basso autoprodotto puzzava di povertà, e l’ho odiato sino a quando non sono riuscito a venderlo a qualcuno messo peggio di me. Mi pare sbagliato (e anche lievemente insultante) che la sostenibilità sia diventata un valore aggiunto, un lusso ulteriore da sbattere in faccia al prossimo. Qualche tempo fa ho letto di un convegno legato al lancio di yacht “sostenibili”, anzi, “eco-friendly”: si annunciava l’impiego di un carburante più green che avrebbe ridotto l’impatto ambientale di questi enormi SUV galleggianti. La notizia di per sé, tanto innocua quanto grottesca, ha generato in me un effetto epifanico di autocoscienza: ovvero ho messo a fuoco il fatto che non ne posso più di sentire parlare di sostenibilità, impatto ambientale, plastiche riciclate e tutto quanto si fa ma soprattutto si sbandiera ai quattro venti per dimostrare di essere più buoni, più bravi, più fighi, tanto più che a parlarne – ed è un’aggravante – sono (anche) aziende che prosperano sullo spensierato spreco di risorse preziose. Evidentemente alle aziende del lusso non basta più la bava che i poveri lasciano sulle loro vetrine. In un impeto di tracotanza e di espansionismo selvaggio verso territori etici a loro misconosciuti, vogliono appropriarsi anche di un concetto che è sempre stato alla base della vita dei meno abbienti: ovvero la sostenibilità, il riciclo, il riutilizzo, la sobrietà obbligata dei consumi e così via. Il problema è che se ti dichiari sostenibile oggi, significa che ieri non lo eri. È un po’ come gettare la maschera: prima sprecavamo e inquinavamo a più non posso, oggi cerchiamo di farlo un po’ meno. Ma quando siamo bravi? E in più c’è un tema generale di decenza e riservatezza: una volta agire in modo sostenibile significava non renderlo manifesto, significava nasconderlo: il rammendo era tanto più apprezzato quanto più era invisibile e il mio basso farlocco tanto più fico quanto più simile al Fender vero. E comunque si cercava di mantenere in buono stato le cose ancora utilizzabili e non sciupare le cose nuove. L’altro giorno ho sentito la sig.ra Carla Sozzani, una delle figure più importanti della moda italiana, raccontare di quando, ai tempi d’oro, le borse nuove venivano agganciate alle auto in modo che, scorrazzando per le stradine bianche della riviera ligure, perdessero in fretta la patina del nuovo per trasformarsi in borse vissute e trasandate, “vintage” insomma: se da piccolo avessi avuto la stessa idea per la mia cartella della scuola, attaccato alla..

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